CAPITOLO 15 - LA VIA DEL RITORNO

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Tornai alla villa con due convinzioni: Marco e Sabino avevano una semplice amicizia e la mia gens era destinata a durare. Apollo non poteva farmi dono più grande, eppure, rimasi inquieto. Le angosce mi tormentarono per i giorni successivi e vennero con me nella scuola di Sirone. Non mi davano tregua nemmeno nei momenti d'intimità, in cui avevo l'impressione perenne di essere un fardello. Sabino sembrava sempre più distante, io, invece, vivevo con la sua immagine scolpita nel petto e, mentre l'osservavo sdraiato al mio fianco, sapevo che non ne avrei avuto mai abbastanza.

«Stai dormendo?» bisbigliai, spostandogli una ciocca dietro l'orecchio. Era sveglio – lo sentivo dal suo respiro – però, quando non rispose, evitai d'insistere. "Eri così impaziente... prima. Cos'ho sbagliato?" in fondo, avevo fatto tutto quello che desiderava e non meritavo di elemosinare un briciolo d'affetto. Oppure sì?

Strinsi i denti, studiando gli altri giacigli nella speranza di allontanare i dispiaceri. Era insolito dividere la stanza col maestro Sirone e i suoi allievi, ma il solo pensiero di visitare Capua insieme riusciva a rasserenarmi. Le strade si sarebbero divise in seguito: loro verso Gaeta, noi sull'Appia, in direzione di Roma.

"Forse, ciò che mi turba è l'imminente fine del viaggio" per un attimo, scorsi un Futuro in cui io e Sabino eravamo anziani, sulle coste di Posillipo, dopo una vita trascorsa in compagnia di Sirone, Vario, Tucca e il resto dei giovani incontrati laggiù. C'erano anche Cornelio, Flacco, Ottavio e i ritratti dei cari defunti che ci avrebbero aspettato nell'Oltretomba. Poi, i raggi del Sole sciolsero quella visione dolce, richiamandomi al Presente.

La giornata si prospettava tanto intensa quanto ricca di novità e noi non perdemmo tempo.

«Maestro, davvero preferisci aspettare nella taberna?» domandò Sesto, fermo sulla soglia con un ampio cappello di paglia tra le mani «La nostra meta è vicina.»

«Ho la pessima abitudine di non saper tacere davanti a un'ingiustizia.»

«Ingiustizia? Ti abbiamo offeso?» Sesto lo fissò dispiaciuto «Il soggiorno da Volumnio Eutrapelo non voleva essere uno sgarbo, e Marco e Quinto...»

«Oh no! Non vi seguo perché rovinerei la visita» Sirone abbozzò un sorriso «Sai, ragazzo, la lingua dei vecchi è fin troppo sciolta: onde evitare sterili discussioni, resto distante da ciò che biasimo ma non posso cambiare, come le scuole a cui siete diretti. Sarò qui al vostro ritorno.»

Noi gli lanciammo un'occhiata delusa, consci, tuttavia, di aver perso in partenza, e ci incamminammo di buona lena.

Dall'esterno, l'accademia ricordava un accampamento militare – quantomeno, l'idea che ne avevo io a quel tempo – e, varcata la palizzata, entrammo in una minuscola città brulicante. La gente veniva dall'intera Repubblica per acquistare i cani allevati lì dentro e noi, aprendoci a fatica un varco tra la folla, raggiungemmo lo spiazzo dov'era allestita la colazione. Parlate straniere e cadenze singolari riempivano l'aria calda, pregna di troppi odori per distinguerne qualcuno. Anche i visitatori, nel loro fervore, sembravano tutti uguali e, soltanto dopo un'oculata ricerca, adocchiammo le famiglie di Quinto e Marco, intente a consumare un generoso pasto.

La moglie di Cicerone era ancora più pallida, aveva lo sguardo spento e, malgrado l'afa estiva, celava il suo corpo con meticolosa attenzione. Accanto a lei, il marito parlava animatamente insieme a Catone che, di contro, rimaneva compassato. E così suo figlio. Marco mangiava in silenzio, teneva la schiena rigida e gli occhi puntati sull'uva, lasciando a Quinto il compito di dialogare con l'altro giovane del tavolo.

«Hanno litigato di nuovo» sbuffò Sabino.

«Chi?»

«Marco e suo cugino» spiegò, sbracciandosi in ampi gesti di saluto «Un tempo, Bruto era una presenza costante, quasi un fratello. Adesso, si sopportano a stento.

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