CAPITOLO 3 - UNA PUNIZIONE INGIUSTA

832 104 469
                                    

[trigger warning: accenni alla violenza su minori]


Mi abbassò la parte superiore della tunica e colpì con violenza, tanto da farmi sanguinare. Colpì più forte di come erano soliti fare gli insegnanti e, quando incrociai il suo sguardo, lo vidi passarsi la lingua sulle labbra, quasi provasse piacere nell'osservare la scena.

«Conta, ragazzo, conta!» mi ordinò «Ti darò tante frustate quanti anni Ulisse è stato lontano da casa.»

Strinsi i denti e usai tutte le forze che avevo per non piangere. Non gli avrei concesso quella soddisfazione, né avrei dato ai miei compagni motivo di considerarmi un debole. "Impara a tacere" mi ripetevo mentre contavo "Impara a essere come gli altri".

Il dolore non arrivava subito e questo, il maestro Ballista, lo sapeva. Perciò lasciava trascorrere un po' di tempo tra un colpo e quello successivo. Lasciava che avvertissi la pelle bruciare e il sangue iniziare a scendere; poi attendeva ancora, fin quando la mia paura non diventava palpabile.

«Quattordici» ansimai, lanciando una seconda occhiata al grammaticus. Ora ero sicuro che provasse piacere a farmi male: il suo corpo fremeva, aveva il volto distorto in un ghigno, il respiro corto e lo sguardo infuocato. Mi parve persino di scorgere qualcosa muoversi sotto la tunica, eppure mi sembrava così strano... così sbagliato, che non seppi se credere alla mia vista. "Lo sto immaginando" mi convinsi, tornando a fissare il muro che avevo davanti.

«Quindici.»

Pronunciai gli ultimi numeri a stento, ma riuscii a non piangere e, terminata la punizione, mi sedetti in silenzio allo sgabello. Evitai di parlare per il resto della mattinata, sforzandomi di ascoltare ogni frase pronunciata dal grammaticus e dai miei compagni. Non avvertii nemmeno i morsi della fame e, quando il maestro ci congedò a pomeriggio inoltrato, mi diressi verso il porto fluviale. Superai le imbarcazioni e proseguii lungo la riva, fino a un angolo deserto.

"I nonni non possono scoprire ciò che è successo" pensai, sfilando la tunica. Dovevo lavare via il sangue dalla pelle e dalla veste.

Mi accovacciai, presi un po' d'acqua e iniziai a strofinare la lana. Non era necessario che tornasse pulito: bastava togliere le chiazze più vistose; dopo avrei sporcato di fango gli orli e sostenuto di essere caduto. "Così, avrò anche una giustificazione per essere rientrato tardi".

Strofinai ancora, assicurandomi di non bagnare troppo il tessuto e orgoglioso del piano che avevo appena elaborato.

"Adesso tocca al corpo" immersi entrambe le mani nel fiume, le pulii per bene e cominciai a sciacquarmi la schiena. L'acqua era fredda, limpida e in grado di darmi un sollievo insperato. Chiusi gli occhi, concentrandomi su quella sensazione. Ero rimasto per ore con la pelle incrostata e dolorante: poterla finalmente lavare era piacevole.

Non so quanto tempo passò; tuttavia, in preciso istante, delle dita pelose mi afferrarono i fianchi.

Dietro di me, un uomo con la corporatura da veterano mi teneva fermo. «Chinati» comandò, spingendo la mia testa a terra. Poi fece per sollevarmi il bacino, ma io opposi resistenza. «Sta' buono, servo» grugnì.

«Non sono un servo!»

Lo sconosciuto mi cinse l'addome. «E quei segni di frusta?» sbuffò, premendosi contro di me.

«Non sono un servo» sentivo la sua pelle sudata e l'odore acre di una giornata di lavoro «Lasciami andare!»

Il cuore batteva così forte da rimbombarmi nelle orecchie, coprendo ogni altro rumore. Non ascoltavo più le parole dello sconosciuto, ma avvertivo tutto il peso del suo corpo. Era sopra di me, con il braccio sinistro intorno alla mia vita e il destro pigiato tra le scapole.

Acheronta MoveboWhere stories live. Discover now