CAPITOLO 11 - LA ZANZARA

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Durante la cena regnò un'atmosfera tesa che i miei genitori non riuscirono a spiegarsi. Parlammo pochissimo, per monosillabi, e, appena terminato il pasto, ci rifugiammo nelle nostre rispettive stanze. Com'era abitudine, raccontai a Flacco un passo dei poemi omerici e aspettai che il suo respiro si facesse più profondo.

«Buonanotte, fratellino» sussurrai, baciandogli la fronte.

Poi attesi ancora, immobile, finché tutte le luci della casa non furono spente.

E iniziai a piangere.

Piansi in silenzio, cercando di non svegliare Flacco.

"Non era così che immaginavo i miei Liberalia" continuavo a ripetermi "Dovevano essere un giorno memorabile". Perché gli Dei si erano scomodati a darmi un dono che non avevo chiesto, invece di rendermi uguale a tutti gli altri? Perché non trovavo divertenti le battute dei miei coetanei, non m'interessavano le feste, né la fama, né tantomeno il sesso?

Tentai invano di asciugarmi gli occhi e rimasi fermo a osservare la toga virilis appoggiata sulla seggiola. Desideravo farla a pezzi, rifugiarmi nella mia infanzia e nascondermi tra i campi di Andes.

Per sempre.

Sei inadeguato! Non farai mai niente di buono per la Repubblica, ringhiavano decine di voci nella mia testa. Potevo riconoscere i nonni, i compagni di classe, il maestro Ballista e persino la mamma. Da qualche tempo, addirittura lei mi guardava con un briciolo di biasimo. Forse avrebbe voluto un figlio diverso.

"Chiunque vorrebbe un figlio diverso" precisai tra me. Ero sudato, eppure tremavo; avevo la vista annebbiata, le orecchie ovattate e un dolore lancinante alla bocca dello stomaco. Tentavo di regolarizzare il respiro, ma era tutto inutile, mentre il desiderio di scappare diventava un bisogno.

Fu allora che presi un papiro e iniziai a scrivere. Abbozzi di storie, versi sconnessi e tante paure che non riuscivo a confessare. Non mi accorsi neppure del Sole che spuntava all'orizzonte e, per una manciata di ore, riuscii davvero a fuggire da tutto, immergendomi in un mondo di cui ero io l'autore. Era un luogo colorato, dove le persone preferivano osservare le stelle piuttosto che percorrere carriere ambiziose. C'erano campi popolati da satiri e ninfe, un'atmosfera sospesa oltre il Tempo e la magia non era un reato. Presto, anche l'eroina che mi avevano vietato di nominare comparve in quel mondo.

"Salve, Manto" pensai, sfiorato da un sorriso "Finalmente racconterò la tua storia".

Nei mesi successivi ci spostammo a Milano ma, invece di conoscere la nuova città, mi rifugiai nella scrittura, sempre all'insaputa dei nonni. Seguii i sentimenti che mi animavano e dipinsi personaggi con cui cominciai a convivere. Certi giorni li sentivo con tanta chiarezza da poter giurare che fossero proprio accanto a me; in altri, invece, dovevo rincorrerli, venirci a patti, litigarci... ed era bellissimo.

Feci molte ricerche, studiai il doppio dei miei compagni e persi parecchie ore di sonno. Non aveva importanza. Alimentare la mia fantasia mi forniva più energie di un lungo riposo, ma mi spinse anche verso domande complesse. Oscure, oserei dire.

Ogni poema prevedeva uno scontro faccia a faccia con la Morte e l'opera che stavo scrivendo non avrebbe fatto eccezione. Nell'Odissea, Ulisse si recava dai defunti per interrogare Tiresia, rimasto veggente persino da spirito.

"Tiresia era suo padre" mi dissi, mentre schizzavo il volto di quella donna che conoscevo ormai meglio di me stesso "E Manto una maga".

Dovevo creare un incontro speciale. Cominciai a pensarci e, tra i miei bozzetti, comparvero mappe di luoghi mai battuti da piede umano. Che aspetto aveva l'Oltretomba? Ero libero di plasmare il Regno dei Morti come avevo fatto con palazzi, guerre e città; oppure gli Dei non mi avrebbero perdonato quell'affronto? Potevo stabilire una geografia ultraterrena, se nessuno, nemmeno Omero, ci aveva provato?

"No" conclusi infine "Pregherò gli spiriti affinché mi mandino una visione". Quando avevo iniziato a scrivere mi ero promesso che sarei stato sincero. Io credevo nel mondo che stavo narrando; credevo che, in un certo senso, Manto avesse agito così come io avevo immaginato. In quanto all'Ade... era un enorme interrogativo che mi spaventava, un buco nero di cui non vedevo né sapevo nulla.

Gli spiriti, però, vennero in mio aiuto.

Ero appena tornato a Cremona per prepararmi al trasferimento nell'Urbe e, quella notte, mi addormentai con uno strano malessere. Ero convinto che mi sarei svegliato nel cuore della notte in preda a una colica. Invece, vidi in sogno l'anima di una zanzara.

«Siano ringraziati gli Dei!» esclamai, nell'attimo in cui riaprii gli occhi.

Era un segnale.

Loro approvavano la mia storia, approvavano un'eroina donna, approvavano persino che la facessi addentrare nell'Oltretomba. E io non mi sarei tirato indietro.

«Oggi» bisbigliai incredulo, mentre indossavo i calzari «Conosceranno la tua avventura». Era giunto il giorno di raccontare il progetto su cui lavoravo da quasi due anni. Non riuscivo a crederci! Avrebbero saputo che stavo scrivendo un poema, avrebbero conosciuto la mia Manto, riso e pianto insieme a lei, come avevo fatto io nella solitudine di una stanza.

Salutai i nonni con un entusiasmo alquanto insolito e loro mi osservarono perplessi.

«Perché sei così contento di rivedere i tuoi ex-compagni? Dopo i Liberalia, non hai fatto che evitarli.»

«Loro non c'entrano» volevo dirlo a tutti. Subito. «Stanotte, gli Dei mi hanno mandato un segno: una zanzara con un messaggio per me. Intendo parlarne in classe.»

Non appena udì quelle frasi, il nonno sbiancò. «Per quale motivo?»

«Perché il maestro potrebbe darmi delle indicazioni per chiarire meglio il mio sogno. Potrebbe consigliarmi i versi con cui descriverlo... o cambiare giudizio su di me.»

«Non dirai niente a nessuno, qualunque cosa ti abbia mostrato quella...» sbuffò «Una zanzara, Virgilio! Ti sembra sensato?»

Annuii. «Tutti hanno un'anima, inclusi gli insetti.»

«Una zanzara, per Giove!» ripeté esasperato.

«È pur sempre un essere vivente e il suo spirito era abbastanza piccolo e leggero da entrare nel mio sogno.»

«Stai farneticando» il nonno aggrottò le sopracciglia «Cosa ti avrebbe fatto vedere questo maledetto insetto?»

«Ecco... negli ultimi tempi ho lavorato a... e avevo chiesto... mi serviva sapere...»

«Cosa credi di aver visto?» domandò lui col tono di un ordine.

«L'Oltretomba.»

Ora il nonno non era solo pallido, ma anche indignato. «Non racconterai nella più prestigiosa scuola di Cremona che una zanzara ti ha mostrato il Regno dei Morti» sbottò.

«Più che "mostrato" me l'ha "raccontato".»

«È fuori discussione! E perché diamine avresti pregato gli Dei affinché ti dessero uno scorcio sull'Ade?!»

Serrai le labbra. Era il momento di ammettere il mio segreto.


NdA:

Grazie mille di essere ancora qui! Spero che continuerete a seguire le avventure di Virgy, anche perché sta per trasferirsi a Roma, compariranno altri personaggi importanti e gli toccherà una gran cotta (la prima, se si escludono gli eroi su cui fangirlerà per tutta la vita!).

In questo capitolo, lo so, non succede molto, ma ci tenevo a dare spazio a un momento piuttosto importante per Virgilio e, a proposito, secondo voi come andrà a finire la questione della scrittura? Il nonno la appoggerà? E lui?

Non faccio troppi spoiler, ma posso anticipare che, nel prossimo capitolo, accennerò ad alcune delle cose che ha scritto e che il poema sullo spirito di una zanzara (così come altri temi che verranno detti nel capitolo 12) era davvero una storia composta da Virgilio prima dei tre scritti che l'hanno reso famoso. Purtroppo, quasi certamente la versione che si può leggere oggi è di un falsario, mentre l'originale è andata perduta e se ne conosce soltanto la trama. Che ingiustizia!!

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