CAPITOLO 2 - IL MIO ULISSE

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La notte era da sempre un porto sicuro. Ne amavo la quiete, i silenzi e persino le ombre. Quando il Sole andava a dormire, c'era un mondo che si risvegliava. E io lo conoscevo bene: era lo stesso mondo che mi sussurrava storie nuove, lo stesso che m'infondeva timore e meraviglia. Il manto celeste era una coperta di stelle di cui potevo avvertire l'abbraccio, i confini del Reale e dell'Immaginario sfumavano e tutto sembrava possibile.

Ma non quella notte.

Trascorsi le ore a torcermi le dita e a girarmi da una parte all'altra del letto, incapace di prendere sonno. Ero stanco, incredibilmente stanco; eppure il mio animo si opponeva a un riposo di cui avrei avuto bisogno. Le stesse voci che mi bisbigliavano racconti epici, adesso citavano a uno a uno i rimproveri dei miei nonni, gli ammonimenti della mamma e le preoccupazioni che non avevo osato esprimere a parole.

Sii uguale ai tuoi compagni, lega stretto il cuore, chiudi gli occhi e tieni a freno la lingua,

Impara a tacere,

O tutti capiranno che sei diverso.

«Non devo essere diverso» mormorai tra me. Poi guardai fuori dalla finestra, verso il cielo, dove, forse, un Dio mi stava ascoltando «Ti supplico, rendimi un buon cittadino.»

Avevo la vista annebbiata, quando scorsi il primo raggio all'orizzonte. Era il momento di uscire, altrimenti avrei fatto tardi.

Indossai in fretta la tunica, i sandali e il gioiello che indicava il mio status di minorenne libero. Quindi afferrai una candela e la misi dentro una lanterna: nessun alunno prudente avrebbe percorso la strada verso la scuola senza una luce.

"E nessun alunno impavido spererebbe di essere accompagnato" sospirai, consapevole che né i miei nonni né i loro domestici avrebbero percorso il tragitto con me, e uscii di casa come un soldato in partenza per la sua prima battaglia.

"Non è un caso che l'anno scolastico cominci proprio nel mese di Marte, insieme alla stagione della guerra" riflettei. In un certo senso, anche noi eravamo chiamati a mostrare la nostra virtù, potendo portare onore o biasimo alla famiglia. In un certo senso, in quelle aule giocavamo la nostra prima sfida col Fato. E, magari, era proprio Marte il Dio che avrei dovuto pregare... un'indole più sanguigna mi avrebbe fatto comodo.

Invece, continuai ad avanzare strisciando i piedi, con gli occhi fissi sul terreno e le mani così sudate che temetti di farmi scivolare la lanterna.

Camminai in mezzo a strade battute, costeggiate da case e negozi. Studiai di sottecchi un paio di ragazzi con fiaccole simili alla mia e dei libri sotto il braccio. Probabilmente, di lì a poco, saremmo stati compagni di classe; tuttavia, non mi avvicinai e proseguii in silenzio, finché non vidi comparire la meta.

La bottega appariva accogliente e, attraverso la porta spalancata, avevo uno scorcio della mia futura scuola. Contavo una ventina di sgabelli in legno e, sulla cattedra, era già seduto un uomo dai tratti mediorientali, un ventre voluminoso e radi capelli scuri.

"Il mio grammaticus" pensai, trattenendo il fiato. Ero ansioso di conoscerlo: avevo sempre studiato con maestri locali, ma adesso avrei avuto un insegnante straniero. "Dev'essere egiziano" ipotizzai "Oppure siriaco". Non assomigliava al grammaticus greco che sognavo, però, sarebbe stato una guida preziosa per la mia formazione. Ne ero sicuro.

Feci appena in tempo a entrare in classe, che un pensiero fulmineo mi attraversò la mente. «Il pranzo!» mi morsi il labbro. L'avevo dimenticato.

«Come, prego?» chiese il grammaticus con aria indagatrice e un leggero accento mediorientale.

«N...niente... io... parlavo da solo e... perdonami.»

«Perdonami, maestro» sottolineò lui «I tuoi genitori ti hanno detto che non è buona cosa parlare da soli?»

Acheronta MoveboWhere stories live. Discover now