Apatia e Vendetta

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Avrei voluto piangere, per ore o forse giorni.
Piangere fino a sentirmi sfinita, annegata dalle mie stesse lacrime.
Fino a far gonfiare gli occhi, a farli stancare, farli chiudere.
Ma non ci riuscivo.
Provavo un’amara tristezza, una stanchezza dilaniante, mi sentivo giù che più giù non si poteva.
Mi sentivo tante cose, sola, persa, triste, eppure non riuscivo a piangere.
Avevo passato la notte rannicchiata sul letto dicendo a me stessa:
piangi
ma niente.
A volte, forse, ci si sente così tanto tristi che non si ha neppure la forza di piangere, il che equivale un po' al non esistere.
L’apatia mi ha sempre spaventata, l’incapacità di provare emozioni, belle o brutte che siano, è una prigione.
E in quel momento mi sentivo esattamente così, in gabbia.
Ero dentro una cella con sbarre dorate, ma pur sempre una cella, fuori c’è il sole ma dentro è tutto buio.
L’apatia fa paura, è un mostro, è una condanna. Eppure non sapevo come evadere.
Quella mattina al lavoro non parlai, nonostante gli innumerevoli tentativi di Mason, ero come un fantasma che camminava zitto e invisibile.
Nel pomeriggio, decisi di far visita a papà. Non che lo volessi, o ne avessi voglia, era solo necessario. Avevo accantonato tutto per troppo tempo, Dylan mi aveva fornito un posto sicuro ed io mi ci ero adagiata, chiudendo fuori il resto del mondo.
Ma adesso quel posto sicuro era crollato, e per me era arrivato il momento di fare i conti con la realtà.
Mentre camminavo per i corridoi di Life House, osservando le sporche pareti grigie, mi sentii quasi parte di esse. Le sentii stringersi su di me fino a soffocarmi, fino a schiacciarmi.
Quando l’infermiera che mi accompagnò bussò alla porta della stanza di papà avvisandolo della visita, presi un lungo respiro prima di entrare, preparandomi al peggio.
Lui era seduto sul letto, con una soffice coperta avvolta sulle spalle. Come avevo previsto i suoi occhi erano spenti, non si colorarono di nessuna emozione quando mi vide.
Mi sedetti sulla sedia scricchiolante ai piedi del letto senza dire una parola, osservando la spoglia stanza intorno a me.
Un letto, un piccolo armadio, un comodino con due cassetti su cui stava poggiato un vecchio libro di Stephen King e una piccola lampada, e quella vecchia sedia su cui mi stavo muovendo nervosa.
<Com’è il libro?>
Domandai a papà, indicando con il mento in direzione del libro.
<È molto bello.>
Rispose accennando un sorriso, ma i suoi occhi non mi guardarono.
<Ti va di raccontarmelo?>
Proposi, cercando un modo per passare il tempo insieme.
<Magari un’altra volta scimmietta.>
La sua apatia superava di gran lunga la mia, il suo sguardo fissava un punto davanti a sé, senza mai voltarsi nella mia direzione. I suoi pensieri erano approdati su coste assai lontane dalla realtà, ed io conoscevo bene quello stato d’animo, l’avevo già visto.
Lui ogni tanto si perdeva, e quello era uno di quei momenti. Alle volte si fermava a fissare un punto, muovendo i palmi delle mani sulle ginocchia avanti e indietro, in quei momenti era impossibile capire a cosa pensasse. Se anche avessi chiesto non me l’avrebbe mai detto.
<Ehi papà, è tutto okay? Come sta andando qui?>
A quel punto si voltò nella mia direzione, ed i suoi occhi iniziarono a riempirsi di rabbia, il mio cuore iniziò a correre veloce.
<Perché ti sei disturbata a venire?>
Mi sporsi leggermente sulla sedia, mentre le mie gambe iniziavano a farsi molli.
<Come sarebbe a dire? È ovvio che sarei venuta a trovarti.>
<Ho perso il conto dei giorni, non so da quanto tempo sono chiuso qui.>
Il suo tono di voce si alzò di qualche livello, ed io capii che non era ancora il momento di ribattere.
<Tutto questo tempo chiuso in questa prigione e tu...>
Un nodo mi si formò in gola, lo stomaco iniziò a contorcersi, a prepararsi al pugno che l’avrebbe presto colpito.
<Tu non sei venuta, mai. Non sei venuta a trovarmi, mi hai lasciato qui a marcire.>
<No papà, io...è solo che...>
Cercai le parole giuste per spiegarmi, ma il nodo stretto in gola mi impediva di respirare, di deglutire, di parlare.
<È questo che volevi, non è così? Volevi liberarti di me, di noi, siamo solo un peso per te.>
Il pugno arrivò dritto allo stomaco, provocandomi un forte senso di nausea. Non potevo credere alle sue parole, non potevo credere che pensasse questo di me. Dopo tutto quello che avevo fatto, dopo che avevo sacrificato la mia intera esistenza per lui e Noah, dopo che gli avevo dato tutto, ogni parte di me, ogni pezzo del mio cuore.
Questo era il modo in cui venivo ripagata?
Non avevo fatto niente di tutto questo aspettandomi una qualche ricompensa, ma sapere che la pensava così su di me dopo che avevo annullato me stessa per il loro bene, faceva davvero troppo male.
<Non lo pensi davvero.>
Credevo che fosse così, doveva essere così. Non poteva pensarla così, era solo un episodio, era solo la malattia a parlare.
<Se non lo pensassi non lo direi.>
Mi alzai di scatto dalla sedia con le gambe tremanti, provavo così tanta rabbia che avrei voluto urlare.
Sapevo però, o forse ci speravo, che quelle parole erano solo frutto del bisbiglio della malattia nel suo orecchio. Sapevo che il mio papà non mi avrebbe mai trattata così, che lui mi era grato per tutto quello che avevo fatto, che lo riconosceva. Sapevo che mi voleva bene.
Sapevo anche che era meglio andare.
Se avessi reagito avremmo finito per litigare, e la sua rabbia a volte poteva essere eccessiva, assai chiassosa, spaventosa.
Mi voltai senza parlare, arrivai alla porta e l’aprì, mentre lo sentivo bisbigliare alle mie spalle:
<Non te ne importa niente di noi.>
In risposta, bisbigliai così piano che a stento sentii io stessa la mia voce.
<Ti voglio bene papà.>
Corsi in auto mentre un vento freddo mi pungeva la pelle, una volta chiusa la portiera mi abbandonai sul sedile.
Anche in quel momento avrei voluto piangere, ma non ci riuscii. In compenso però, urlai.
Urlai forte, consapevole che nessuno poteva sentirmi. L’urlo rimase confinato nella mia auto, ma fu così lungo e acuto che per un attimo mi fece sentire più leggera.
Fu solo un attimo però, poi il peso di tutto quello che era successo mi ripiombò addosso.
Forse c’era semplicemente troppo da dover sistemare, forse il mio cuore non riusciva più a reggere.
Era come se d’improvviso ogni singola cosa nella mia vita si fosse disintegrata, tutte le cose belle erano sparite con la stessa velocità con cui erano arrivate.
Prima papà decide di tornare a Life House, poi perdo la mia migliore amica (questa è colpa mia in effetti), Dylan decide improvvisamente di trasformarsi in uno stronzo patologico, e infine mi sento dire che non me ne importa niente della mia famiglia.
Famiglia per cui darei volentieri la vita, se non si fosse capito.
Forse avevo commesso qualche errore imperdonabile, e questo era il modo in cui l’universo aveva deciso di punirmi, per niente divertente ad essere sinceri.
O forse, semplicemente, proprio l’universo aveva deciso di prendermi per il culo.
O magari c’erano degli Dei annoiati, che mi guardavano da qualche televisore gigante, che avevano deciso di divertirsi con le mie disgrazie.
Le ragioni, insomma, potevano essere innumerevoli, per spiegare l’improvvisa rivolta dell’intero mondo contro di me. Ma, in ogni caso, dovevo farci i conti.
Avevo un piano, in effetti, per rivoltare la situazione e prendere in pugno le redini di quel gioco. L’universo non sapeva chi aveva sfidato, perché adesso ero stanca di subire ogni colpo in silenzio.
Il primo punto sulla mia lista era Dylan.
Dovevo fargliela pagare, la mia sete di vendetta era incontrollabile, mi seccava la gola.
Aveva detto che non gliene sarebbe importato niente se mi avesse vista con un altro, ed era esattamente quello che avevo in mente di fare. Avrei lasciato che mi guardasse mentre qualcun altro mi offriva da bere, mentre mi poggiava una mano sulla schiena, mentre altri occhi si fermavano su di me.
Avrebbe dovuto guardare altre mani che accarezzano la mia pelle, che mi spostano i capelli dal viso. Non avrei avuto pietà o limiti di nessun tipo.
Se davvero vedermi con un altro non avesse acceso in lui nessun fuoco, avrei rinunciato per sempre, mi sarei arresa e sarei sparita dalla sua vita, anche se faceva male da morire. Avrei lasciato perdere e avrei ricominciato la mia vita da capo, fingendo che lui non sia mai esistito.
Se invece in lui si fosse accesa anche solo una piccola scintilla, avrei capito che mi aveva mentito, e che stava solo cercando di negare i suoi sentimenti.
Per la totale riuscita del mio piano però, non sarebbe bastato uscire con un altro a caso, mi serviva una persona in grado di stuzzicarlo, una persona che non gli sarebbe stata indifferente, qualcuno contro cui non gli piaceva perdere.
Ancora dentro la mia auto, tirai fuori il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e mi misi a cercare, quando trovai il profilo che cercavo cliccai sul tasto “invia un messaggio” e digitai sulla tastiera:
Alya: Ehi
Attesi qualche minuto, fissando lo schermo, finché non apparse la scritta “visualizzato”. Mi stupii della velocità con cui il messaggio era stato visto, ma ne fui anche felice, se fosse passato troppo tempo forse ci avrei ripensato.
I tre puntini iniziarono a saltellare sullo schermo, poi il messaggio apparse.
Blake: Ci conosciamo?
Quella risposta non mi stupiva affatto. Aprii la tastiera e digitai senza neppure riflettere, senza darmi il tempo per ripensarci.
Alya: Ci siamo visti a qualche corsa, non fingere di non ricordarti.
Tagliai corto, senza filtri, decisa a raggiungere il mio obbiettivo senza troppi giri di parole.
I tre puntini saltellarono e poi scomparvero, ed io pensai che forse quel piano era destinato a fallire. Ma la risposta arrivò, ed io mi affrettai a leggere, mentre il cuore iniziava a galopparmi nel petto.
Blake: Oh si, ci sono! La proprietà privata di Dylan.
Quella frase mi fece tremare il sangue nelle vene dalla rabbia, digitai la risposta premendo un po' troppo forte sullo schermo e inviai.
Alya: L’unica proprietaria di me stessa sono io.
Misi le cose in chiaro, scendendo in scena con una frase pro femminismo che poteva tranquillamente essere usata per dare il titolo ad un libro.
Blake: Ah si? Allora dimmi, Miss Indipendenza, perché mi hai scritto?
Mi resi conto, con non molta sorpresa, che quel ragazzo era davvero irritante. Capivo perché Dylan lo tollerasse così poco e perché gli piaceva così tanto batterlo alle corse.
Che mi stesse simpatico o no, era l’unico in grado farmi ottenere ciò che volevo, e di questo ne ero certa. Con lui il mio piano avrebbe funzionato di sicuro.
Presi un respiro e digitai sulla tastiera, consapevole che da quel momento non sarei più potuta tornare indietro.
Alya: Vuoi uscire con me?

Come amano le stelleWhere stories live. Discover now