Pezzi di un puzzle

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Era lunedì mattina, mi dirigevo al bar con uno smagliante sorriso.
Ero molto soddisfatta del mio fine settimana, dopo aver dormito insieme Dylan era sgattaiolato dalla finestra prima che si svegliasse papà. Quella domenica io, Noah e papà andammo in spiaggia e passammo una giornata fantastica, poi la sera cenammo con i nonni. Mi sentivo felice. La mia famiglia era felice, papà stava meglio, avevo un quasi fidanzato meraviglioso e degli amici con cui andavo alle feste. In fondo, cosa potevo desiderare di più?
Arrivata al bar trovai Mason già dietro al bancone, la sua presenza era davvero un grande aiuto per me.
<Ciao.>
Dissi, girando dietro al bancone.
<Oh eccoti, mi chiedevo quando saresti arrivata.>
Per le prime ore di quella mattina il bar fu poco affollato, così io e Mason trovammo tempo per conoscerci meglio. Ero ancora abbastanza sicura che saremmo diventati ottimi amici.
<E così ti piace scrivere?>
<Già, nel tempo libero più che altro.>
<Sono un grande appassionato di letteratura.>
Sorrisi, felice al solo pensiero di aver trovato qualcuno con cui parlare di libri, in più la sua compagnia rendeva il lavoro meno noioso.
<Sai, giovedì andrò alla conferenza di un giovane scrittore emergente, è un ragazzo del mio corso di storia. Se ti va potremmo andare insieme, magari conosci qualcuno del settore che può aiutarti.>
Feci per rispondere di si, sarebbe stato stimolante, ma una voce alle nostre spalle sovrastò la mia.
<Oh interessante, vengo volentieri.>
Ci girammo entrambi, posando lo sguardo su Dylan che se ne stava appoggiato con i gomiti al bancone. Mi chiesi come facesse a spuntare così all’improvviso, senza fare il minimo rumore.
<Ciao.>
Dissi, guardando Mason imbarazzata. Dylan non rispose, si limitò a guardare Mason quasi in cagnesco.
<Mason, lui è Dylan. È il mio...è un mio...>
Mi bloccai, chiedendomi come avrei dovuto presentarlo. Potevo dire che stavamo insieme? La nostra era a tutti gli effetti una relazione? O avrei dovuto limitarmi dicendo che eravamo amici?
<Ragazzo, amico speciale, compagno di letto, fidanzato, probabile futuro padre dei suoi figli. Sono tante cose per lei, invece tu chi saresti?>
Dylan finì la frase al posto mio, senza mai smettere di fissare Mason che nel frattempo era arrossito.
Quella sua risposta creò trambusto dentro di me, all’improvviso mi sembrò un cane che voleva marchiare il territorio. Perché era stato così scontroso con Mason? Non stava facendo nulla di male. Non poteva comportarsi così, come se io fossi una sua proprietà e nessuno poteva neppure guardarmi. Non c’era niente di male ad avere degli amici.
<Mason, ti dispiace se esco un momento?>
Chiesi, imbarazzata per Dylan, mentre giravo intorno al bancone e l’afferravo per un braccio, trascinandolo fuori.
<Non puoi fare così.>
Dissi, una volta fuori dal bar.
<Così come?>
<Come se io fossi una tua proprietà e nessuno a parte te può rivolgermi la parola. Mason è un amico, perché sei stato così scontroso con lui?>
<Si dà il caso che il tuo amico ti stava invitando ad un appuntamento. Sarei dovuto rimanere lì zitto mentre lui si convinceva di poterti avere?>
Sbuffò passandosi la mano tra i capelli, io non ribattei.
<È che non ce la faccio. So il potere che hai, lo conosco bene. So quanto sia facile innamorarsi di te. Il solo pensiero che qualcun altro possa desiderarti mi manda fuori di testa.>
Quelle parole fecero tremare il mio cuore, aveva appena ammesso di essere innamorato di me? Avrei voluto abbracciarlo forte e dirgli che non serviva preoccuparsi, perché io sono sua, ma non potevo. Se lo avessi fatto lui non avrebbe capito. Non avrebbe capito che non doveva trattarmi come un giocattolo che non vuole condividere, che non deve marchiare il territorio intorno a me. Deve fidarsi di me.
<Non devi fare così, devi fidarti di me. Non voglio che ricapiti. Se non riesci a resistere all’impulso di aggredire ogni ragazzo che mi rivolge anche solo parola, allora è meglio lasciar perdere.>
<Lasciar perdere?>
La sua espressione cambiò, ed il mio cuore si spezzò di qualche centimetro.
<Si, lasciar perdere questa cosa fra noi.>
<Non voglio lasciar perdere.>
Una parte di me tirò un sospiro di sollievo, neanch’io volevo lasciar perdere, volevo solo spaventarlo per fargli capire la lezione.
<Bene, allora non farlo più. Devo tornare a lavoro, ci sentiamo più tardi.>
Tornai dentro, lasciandolo lì fuori con un espressione triste, persa. Forse ero stata troppo dura, ma almeno così avrei avuto la certezza che aveva capito. L’avrei chiamato quella sera e avrei rimesso le cose a posto, tutto sarebbe tornato come prima.

La giornata passò in fretta, per il resto della mattina Mason mi rivolse a stento la parola, io mi adattai, ero ancora troppo imbarazzata a causa della scenata di Dylan per dire qualcosa.
Dopo cena, quando ormai papà e Noah dormivano, chiamai Dylan. Avevo voglia di sentirlo dopo quella che aveva tutta l’aria di essere la nostra prima litigata, volevo tranquillizzarlo, dirgli che non era cambiato nulla tra noi.
Il telefono squillò, ma lui non rispose. Pensai che fosse arrabbiato con me, ferito forse, non voleva parlarmi. Mi sembrava esagerato prendersela così tanto, forse ero stata dura, ma si poteva risolvere.
Dopo aver provato svariate volte a chiamarlo, senza mai ricevere una risposta, decisi che forse era meglio lasciar perdere per quella sera. Probabilmente si sarebbe fatto vivo lui l’indomani. Decisi di scrivergli un messaggio, tanto per fargli sapere che ero lì ad aspettarlo, anche se non aveva voglia di rispondere l’avrebbe sicuramente letto.

Alya: Scusami se sono stata dura con te stamattina, ero arrabbiata, neanch’io voglio lasciar perdere.  Chiamami appena puoi. Notte <3

Posai il cellulare e mi misi a dormire, convinta del fatto che avrei trovato una sua risposta al mio risveglio.
Ma, quella mattina, al mio risveglio il suo nome sullo schermo del mio cellulare non c’era. Una stretta allo stomaco mi pervase, nella mia mente iniziarono a farsi spazio pensieri orribili.
E se non volesse più vedermi?
E se mi lasciasse per sempre?
Avevo rovinato tutto?
Con quell’ultima domanda il mio cuore iniziò a battere forte. Avevo rovinato tutto, come sempre. Sapevo di essere rotta, sapevo che nessuno poteva amarmi, sapevo che al mio fianco le persone soffrivano. Io rovinavo sempre tutto. L’avevo fatto di nuovo.
Sapevo che avrei rovinato ciò che c’era tra noi, era troppo bello per essere mio. Eppure mi ero disarmata, l’avevo fatto entrare nel mio cuore regalandogli la chiave, e adesso era tutto perduto. L’avevo rotto. Avevo rotto lui e la nostra storia. L’avevo perso, così come avevo sempre perso tutte le cose belle della vita. E adesso che avrei dovuto fare io? Che ne sarebbe stato di me?
Mentre me ne stavo seduta sul letto, con la testa tra le mani, il mio telefono vibrò facendo sobbalzare il mio cuore. Lo presi in fretta, pensando fosse lui, tirando un sospiro di sollievo, forse mi ero solo fatta prendere dal panico.
Ma non era lui. Era Ellie.

Ellie: Stasera a casa di Liam, pochi amici, giusto qualche birra. Ci vieni?

Quasi tirai il telefono, delusa. Non me ne importava niente di una stupida festa, volevo solo che Dylan mi richiamasse.
Poi però, come se una lampadina si fosse accesa sulla mia testa, mi venne un’idea.
Liam e Dylan erano grandi amici, da quando li conoscevo non avevo mai visto Liam ad una festa senza Dylan o viceversa. Se Liam organizzava una piccola festa a casa sua, Dylan ci sarebbe stato di sicuro. Era la mia occasione per vederlo, per chiedergli scusa, per spiegargli. Per convincerlo a non lasciarmi andare.
Ripresi il telefono che avevo lanciato sul letto e risposi ad Ellie.

Alya: Certo! A che ora passi a prendermi?

Per il resto della giornata non riuscii a pensare ad altro, il mio stomaco si contorceva al pensiero di rivederlo dopo la nostra litigata, dopo che aveva smesso di parlarmi. Mi chiedevo come fossimo arrivati a quel punto. Qualche giorno prima dormivamo insieme nello stesso letto e adesso lui mi ignorava. In cuor mio credevo fosse stata solo una piccola e stupida litigata, una cosa da niente, ma ero brava a mettermi nei panni degli altri, perciò pensai che evidentemente per lui non era stata una cosa da niente. Le mie parole l’avevano ferito.
Quando si fece sera, ed Ellie venne a prendermi, sentivo il cuore uscirmi dal petto.
Volevo mettere le cose a posto, lo speravo, non volevo finisse così. Non poteva finire così. Mi ero anche preparata un discorso, lo ripetevo in mente senza mai fermarmi per essere sicura di non dimenticare niente, mentre Ellie parlava a raffica.
<Allora, com’è andata con il ragazzo della festa? Non mi hai più chiamata.>
Interruppe il mio discorso.
<Chi?>
<Il ragazzo con cui sei tornata a casa dopo la festa di sabato, te ne sei già dimenticata? A questo punto deduco non sia andata bene.>
Quasi rabbrividii al pensiero di quella sera, avevo dimenticato la bugia che avevo inventato per Ellie, riuscivo solo a pensare a quella notte. A lui. Ai nostri corpi abbracciati.
<Oh si, non è andata bene.>
Per mia fortuna arrivammo a casa di Liam, così Ellie non ebbe il tempo per chiedermi ulteriori dettagli.
Mentre entravo il cuore mi batteva forte, percepivo le farfalle nello stomaco, mi solleticavano provocandomi un forte senso di vomito.
Quando entrammo nel salone con i divani in cui erano tutti riuniti mi guardai intorno.
C’erano davvero poche persone, come aveva detto Ellie. Erano gli stessi ragazzi che c’erano stati al suo compleanno, mi sentii sollevata vedendo solo facce conosciute.
Dylan però non c’era. Lui non era lì.
Una sensazione di paura si fece spazio nel mio stomaco.
E se non venisse?
Come avrei fatto a parlarci se non quella sera?
Quando l’avrei rivisto?
Presi posto su uno dei divani, vicino ad Ellie. Mi finsi più naturale possibile, senza lasciar trapelare emozioni, non volevo notassero che qualcosa non andava, avrebbero fatto troppe domande.
Decisi di non scendere subito a conclusioni, avrei aspettato, forse sarebbe arrivato. Da un momento all’altro, con il suo solito sorriso e i suoi occhi verdi.
Sorseggiavo la mia birra ed aspettavo.
Ascoltavo le loro conversazioni e aspettavo.
Controllavo il cellulare e aspettavo.
Un’ora. Due ore. Tre ore. Aspettavo.
Ma lui non arrivò. Non sarebbe mai arrivato. Era finita.
Ormai non stavo neanche più ascoltando le loro conversazioni, ero come un fantasma in quella stanza, seduta su quel divano come una bambola di pezza senza vita.
<Liam, hai notizie di Dylan?>
Chiese uno dei ragazzi, e il mio battito accelerò solo sentendo quel nome.
<Oh si, nulla di grave per fortuna. Adesso è a casa.>
Sobbalzai dal divano, mentre tutti si giravano a guardami.
<Cosa...>
Mi schiarì la voce.
<Cosa gli è successo?>
Quella domanda avrebbe sicuramente destato sospetti, soprattutto ad Ellie, ma non mi importava. Dovevo saperlo.
<Ha avuto un incidente con la moto.>
Mi sentii improvvisamente debole, spaesata, sovrastata dalla paura.
<Quando?>
Stavano ancora tutti a guardarmi, straniti dalla mia improvvisa curiosità.
<Ieri sera.>
Mi sentii la testa pesante e le gambe molli, improvvisamente mi sembrava di non respirare. Stavo avendo un attacco di panico.
Aveva avuto un incidente lo stesso giorno della nostra litigata, probabilmente quella sera mi avrebbe chiamata se non fosse successo. Forse non aveva risposto non perché non voleva, ma perché non poteva.
Scattai in piedi, respirando a fatica, cercando di non farlo notare. Raccolsi in fretta la mia borsa e uscii dalla stanza, mentre Ellie mi correva dietro.
<Aly, tutto okay? Dove vai? Che succede?>
Cercai di riprendere fiato, per non farle notare l’attacco di panico in corso, non mi avrebbe lasciata andare altrimenti.
<Io...mi sono ricordata che devo fare una cosa.>
<Cosa? Vuoi che ti accompagni?>
<No, chiamerò un taxi, non preoccuparti. Divertiti.>
Uscii di casa, senza neanche lasciarle il tempo di rispondere, e iniziai a correre.
Dovevo andare da lui.
Sapevo che alloggiava nei dormitori dell’università, ma non li avrei mai raggiunti a piedi. Mi fermai pochi isolati dopo casa di Liam e chiamai un taxi che arrivò dopo quindici minuti esatti, quindici minuti che mi sembrarono quindici ore.
Solo quando arrivai davanti ai dormitori mi resi conto di quanto fossero grandi, come avrei fatto a trovare la sua stanza? Non potevo mettermi a bussare ad ogni porta, ci avrei impiegato ore. Corsi verso l’entrata e decisi di attuare una tattica diversa, non sapevo quanto tempo ci sarebbe voluto, ma l’avrei trovato.
Iniziai a fermare ogni persona che mi ritrovavo davanti mentre correvo per i corridoi.
<Dylan Johnson, lo conosci?>
<No mi dispiace.>
Correvo ancora.
<Conosci Dylan Johnson?>
<No, scusa.>
Correvo.
<Dylan Johnson, lo conosci?>
<Certo che conosco Dylan, tu chi sei?>
Finalmente.
<Sai dirmi dove si trova la sua stanza?>
<È forse nei guai?>
<Cosa? No. Devo parlagli.>
Dopo avermi scrutato attentamente, il ragazzo si convinse e mi indicò la strada.
Due volte a sinistra e tre volte a destra, stanza numero diciannove.
Questa volta camminai, piano, quasi come se non volessi arrivare in fretta. Non sapevo cosa aspettarmi. Era ferito? Come avrebbe reagito vedendomi? Era arrabbiato con me?
Quando raggiunsi la porta tirai un lungo respiro, cercando di rallentare il mio battito, poi bussai.
Dopo un minuto la porta si aprì e lui era proprio davanti a me.
Aveva un graffio sulla guancia, era senza maglietta così notai anche dei piccoli tagli sul suo torace. Vederlo in quelle condizioni mi fece salire le lacrime agli occhi, ma allo stesso tempo mi sentii sollevata costatando che stava bene.
Mi fece entrare, senza dire una parola, e chiuse la porta.
<Che ci fai qui?>
Chiese dopo qualche secondo, ancora in piedi davanti alla porta.
<Liam mi ha detto del tuo incidente, mi sono preoccupata. Perché non hai pensato di avvisarmi?>
<Mi si è rotto il telefono nell’incidente.>
Realizzai che era come pensavo, non mi aveva chiamata perché non poteva farlo.
<Mi dispiace averti fatto preoccupare, sarei passato al bar domani mattina.>
Lacrime calde iniziarono a bagnare il mio viso.
<Perché stai piangendo?>
Si avvicinò piano.
<Io...>
Singhiozzai.
<Io credevo che non volessi più saperne di me. Credevo fossi arrabbiato per via di quella specie di litigata. Ti ho chiamato ma non hai mai risposto, né hai richiamato. Io…credevo di averti perso.>
Lo guardai, mentre i miei occhi si appannavano per le troppe lacrime.
<Davvero pensi che ti avrei lasciata andare a causa di una stupida discussione come quella?>
<Si, lo credevo, perché mi è già successo. Le persone scappano da me, io rovino sempre tutto. Le porto al punto di odiarmi, ho sempre così tanta paura di perdere le persone a cui tengo, che poi finisce che le perdo davvero. E la colpa è sempre mia. Perché sono sbagliata, perché sono rotta.>
Mi tirò a sé e mi abbracciò, facendomi poggiare l'orecchio sul suo petto.
<Lo senti Aly? Senti il battito del mio cuore? Senti come batte piano? È rotto.>
Fece una pausa, prendendo un lungo respiro, come se quelle parole gli pesassero dentro.
<Anche il mio cuore è spezzato, proprio come il tuo.>
Affondai il viso nel suo petto, lasciando che le mie lacrime bagnassero la sua pelle.
<La vita è una stronza stellina, ma quando ti sto vicino sento che vale la pena viverla. Tu non sei sbagliata, lo è chi te l’ha fatto credere. Solo uno stupido non vorrebbe stare al tuo fianco per sempre.>
Alzai la testa dal suo petto, gli presi il viso tra le mani, e lo baciai. Quel bacio significava di più, quel bacio voleva di più.
Volevo essere sua, stavolta per davvero, volevo ricordare quella notte per sempre.
Mi alzò da terra, io circondai il suo bacino con le gambe. Si avvicinò al letto e mi fece distendere, posizionandosi sopra di me. Iniziò a baciarmi delicatamente il collo, poi di nuovo le labbra. Le nostre lingue danzarono all’unisono, mentre mi toglieva la maglietta e con lei anche il reggiseno, lasciando i miei seni nudi. Li baciò e li accarezzò, facendoci roteare sopra la lingua, delicatamente. Gemetti piano, accarezzando ogni centimetro del suo petto nudo, poi gli sfibbiai i pantaloni. Li tolse e li gettò via, facendo poi lo stesso con i miei. A quel punto eravamo completamente nudi, l’uno davanti gli occhi dell’altra, disarmati, come due soldati senza scudo.
<Dillo Aly, di che ho vinto la scommessa.>
Disse in un sussurro, sorridendo tra un bacio e l’altro.
<Hai vinto.>
Dissi, piano.
<Ti prego, fai l’amore con me.>
Si spostò da sopra di me, aprì un cassetto vicino al letto da cui prese un preservativo, strappò la carta con i denti e lo indossò.
Un attimo dopo si muoveva dentro di me, strappandomi sussulti e gemiti di piacere. Si mosse piano, poi più veloce, senza mai smettere di baciarmi il collo.
Mi baciò le spalle, le labbra, i seni, baciò ogni singola parte di me.
Stese il mio braccio sul letto ed incastrò la sua mano nella mia, mentre ansimava insieme a me.
Mi sentii piena di lui, mi sentii sua con ogni parte del mio corpo.
Si lasciò cadere su di me, ormai arrivato al culmine del piacere, ed io con lui.
Mi baciò sulle labbra, soddisfatto. Baci delicati che non sapevano di sesso, ma di amore.
Strinse forte la mia mano, poi si distese al mio fianco, tolse il preservativo e si girò verso di me. Adesso ci guardavamo negli occhi. Mi spostò i capelli dalla fronte ed io mi sentii al culmine della mia felicità. Ero innamorata di lui, lo amavo con ogni fibra del mio corpo. E non volevo che questo finisse, mai.
<Sei la stella che illumina la mia notte.>
Dissi, accarezzandogli il viso dolcemente, passando piano la mano sui graffi sulla sua guancia.
Mi chiesi se avesse capito cosa intendevo dire. La mia vita era la notte, era buia e scura prima che arrivasse lui. Mi ero persa in mezzo a tutto quel nero, ma lui era la mia stella, la stella che aveva riacceso la luce, colorato il mio cielo.
<E tu sei la mia.>
Rispose.
Quella notte mi abbracciò più forte del solito, prima di cadere entrambi in un sonno profondo. Ancora una volta ero al sicuro tra le sue braccia, dopo la notte che avrei ricordato per tutta la vita. Ancora una volta c’eravamo solo noi, incastrati come pezzi di un puzzle.

Come amano le stelleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora