Concedersi debolezza

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Dylan mi fece segno di raggiungerlo ed io quasi mi misi a correre, la voglia di baciarlo che tamburellava nel mio petto.
Gli ero grata per tutte le emozioni che aveva fatto nascere in me, non vedevo l’ora di dimostrarglielo.
<Ti sei persa principessa?>
Una moto si accostò al mio fianco mentre camminavo verso il punto in cui lui mi aspettava. Quando mi voltai verso quella voce mi resi conto che era Blake, acerrimo rivale di Dylan, a quanto aveva detto Gwen.
<Per niente.>
Risposi acida, quasi come se spettasse anche a me detestarlo.
<Questo posto non è adatto a una come te.>
Notai il suo sguardo alzarsi ed abbassarsi sul mio corpo.
<E come sarebbe una come me?>
Rimarcai quelle parole come se mi bruciassero la gola.
Mi ero sentita dire spesso quelle tre parole, al liceo, per lo più.
Una come te non dovrebbe stare qui.
Una come te non dovrebbe comportarsi così.
Una come te non dovrebbe  parlare in questo modo.
Io però, non avevo ancora capito com’era una come me.
<Sei troppo delicata per un posto del genere.>
Delicata, questa era bella.
<E dove starei meglio, secondo te? Su un prato a raccogliere fiori?>
Acida, la mia risposta fu acida, per niente delicata.
<Nel mio letto, magari. Lì potresti essere delicata quanto ti pare, io al contrario, non lo sarei affatto.>
Il rombo potente di una moto alle mie spalle mi impedì di rispondere a quella proposta squallida, quando mi voltai il faro anteriore della moto di Dylan mi fece socchiudere gli occhi.
Si avvicinò con lo sguardo puntato su Blake, il casco legato al polso, i capelli scombinati dal vento. Qualcosa si mosse dentro di me, la voglia insaziabile di lui. Vederlo in quel contesto, in quel suo mondo, aveva acceso una fiamma dentro di me.
Forse non era né il luogo né il momento adatto, ma mi ritrovai a fantasticare, ad immaginare la mia mano fra i suoi capelli scompigliati, mentre stavo a cavalcioni su di lui a fare l’amore su quella moto.
<Blake.>
Il suo nome gli uscì di bocca come se fosse una parolaccia.
<Dylan, sempre fra i piedi a quanto vedo.>
Dylan si affiancò a me con la moto, lo sguardo ancora intento a fulminare Blake.
<Quante volte ancora dovrò ripeterti di stare lontano dalle mie cose?>
Quasi sussultai, non capii se per via del fatto che aveva usato la parola “mia” o perché mi aveva chiamata “cosa”.
<Non mi sembra di vedere Gwen da queste parti.>
<Hai comunque gli occhi puntati su qualcosa di mio.>
Blake puntò lo sguardo su me, vidi la consapevolezza luccicare nei suoi occhi, mentre la sua bocca si incurvava in un sorrisetto provocatorio.
<Ti riferisci alla principessa qui presente, allora. Avrei dovuto immaginare che era un’altra delle tue conquiste.>
<Sparisci.>
Dylan lo liquidò con un gesto della mano, e lui sparì con un rombo di motore senza aggiungere altro.
Mi voltai verso di lui ed incrociai le braccia al petto.
<Un’altra delle tue conquiste?>
Lui allungò una mano e mi offrì il casco.
<Andiamo.>
Non lo accettai, rimasi ferma, in attesa di una risposta.
<Aly...>
<Quante?>
<Quante cosa?>
<Quante sono queste conquiste?>
Prima o poi avrei dovuto affrontare quell’argomento, troppe volte avevo sentito parlare delle innumerevoli ragazze che si portava a letto. Mi ero convinta di non essere una di quelle, che c’era di più tra noi, ma avevo bisogno di esserne sicura.
<Io...>
<Quante Dylan?>
<Che importanza ha?>
<Ha importanza per me, sono una di quelle? Sono anch’io una delle tue conquiste? Sono questo per te?>
<Cosa? No.>
Il suo sguardo si fece più cupo, più dolce, sincero.
<Quello che ero prima non ha niente a che vedere con quello che sono ora. Io… tu...>
Balbettò, come se la sua mente fosse impegnata a selezionare ogni parola con la massima attenzione.
<Non sei una mia conquista, non sei neppure lontanamente vicina a quel titolo, d’accordo? Tu sei…..di più.>
Di più.
Ero più di quanto avesse mai avuto, proprio come lui lo era per me.
Mi sporsi con uno scatto e gli posai un bacio dolce e veloce sulle labbra, quando mi allontanai notai la sorpresa nel suo sguardo, poi sorridendo mi porse un’altra volta il casco, e questa volta lo accettai.











Una dolce melodia mi strappò da un incubo, per un attimo non capii se provenisse dai miei sogni oppure no.
Note delicate, dolci, un suono colmo d’amore, di malinconia e di…tristezza.
Quella musica era triste, era così triste che ti entrava dentro e ti faceva sentire svuotata.
Ogni nota, ogni accordo, ogni pausa era intrisa di tristezza.
Aprii gli occhi tornando alla realtà, aspettandomi di sentir sparire quella musica, credendo fosse frutto dei miei sogni.
Ma quando iniziai a battere le palpebre, quando la mia mano si mosse sul cuscino, la musica era ancora lì.
Non era frutto di un sogno, era reale, si espandeva per le camere di casa mia come un dolce richiamo.
Mi voltai verso l’altro lato del letto, ma Dylan non c’era più.
Dopo la corsa eravamo tornati a casa mia e avevamo fatto l’amore finché i nostri corpi non erano crollati esausti sul materasso.
Mi alzai dal letto, la moquette mi solleticò i piedi scalzi, mi infilai una t-shirt e seguì il suono del pianoforte.
Il vecchio pianoforte del salotto non suonava più da anni.
La mamma era un’ottima pianista, tutto merito del nonno che da bambina le aveva insegnato a muovere le dita su quei tasti. Da quando lei non c’era più non avevo più ascoltato il suono di quello strumento, era rimasto lì ad accumulare polvere.
Quel suono mi ricordò lei, ricordai tutte le volte in cui mi sedevo al suo fianco a guardare le sue dita muoversi veloci, la musica che mi entrava dentro dritta al cuore.
Ma quando arrivai in salotto, una nuova immagine si inserì tra i miei ricordi legati a quel pianoforte.
Dylan sedeva sullo sgabello con grazia, le spalle alte ma comunque rilassate.
Le sue dita danzavano sul bianco e sul nero dei tasti, veloci, sicure, delicate.
Avrei voluto vederlo in viso, ma la mia posizione non me lo permetteva ed io non volevo rischiare di interromperlo.
Rimasi nascosta nel mio angolo alle sue spalle, immaginando il suo viso calmo e bellissimo mentre quella melodia si riversava nelle sue vene.
Quel ritmo lento mi cullò come una ninna nanna, ed io quasi trattenni il respiro per paura di emettere un suono che rovinasse quella musica.
Poi ad un certo punto la musica si fermò, ma lui rimase lì seduto a guardare le sue mani, ad accarezzare i tasti ma senza premerli.
<È bellissima.>
Dissi, per salvarlo dall’abisso di pensieri in cui probabilmente si stava perdendo.
Lui si girò di scatto a guardarmi, sorpreso dalla mia presenza, quasi imbarazzato dal fatto che io lo avessi visto suonare.
<È scordato.>
Rispose freddo, rigirandosi a chiudere il coperchio sui tasti.
<Lo so, non veniva suonato da un po'.>
Rimase ancora zitto dandomi le spalle, come se volesse evitare il mio sguardo, come se fosse ancora perso tra pensieri che non gli piacevano ma che aveva risvegliato con quella musica.
<Sei davvero bravo a suonare.>
<Non importa.>
Mi avvicinai lentamente di qualche passo, lui ancora con la testa china su quel legno.
C’era qualcosa che non andava, lo sentivo nell’aria, nelle ossa, nel battito del mio cuore che si era fatto improvvisamente più veloce.
<Ti va di suonare ancora qualcosa per me?>
Chiesi calma, quasi in un sussurro.
<No.>
Il suo tono era tagliente, ghiacciato. Ero abituata ad episodi del genere, con papà capitava spesso, sapevo cosa fare.
Dovevo mantenere un tono calmo e basso, alzare troppo la voce potrebbe spaventarli.
Dovevo avvicinarmi con calma e con delicatezza.
Dovevo farlo tornare da me, riportarlo alla realtà.
<Perché no?>
Ogni parola era un passo lento e silenzioso verso di lui.
<Non suono più, te l’ho già detto.>
<Stavi suonando prima.>
Un altro passo.
<Ho detto che non suono più.>
<D’accordo, e perché?>
Un altro ancora.
Lui non rispose.
<Per via di tua madre?>
Ancora silenzio, ma io continuai ad avanzare piano, silenziosa come un gatto.
<Non dovresti smettere di fare una cosa che ti piace a causa sua.>
Lo vidi irrigidirsi sullo sgabello ma continuai a muovermi e a parlare.
<Lo so che suonare te la ricorda, perché te lo ha insegnato lei. Posso solo immaginare come tu ti senta ogni volta che tocchi quei tasti ed il suo viso riaffiora nella tua mente, i vostri ricordi mentre lei ti insegnava.>
Vidi la sua mano chiudersi a pugno, ero ormai ad un passo da lui.
Vidi le nocche sbiancare ed i suoi occhi chiudersi per un attimo.
Solo un altro passo, poi gli avrei preso la mano, il mio tocco l’avrebbe riportato alla realtà, gli avrebbe ricordato che adesso aveva qualcuno che lo amava, che io lo amavo.
<So quanto fa male...>
Dissi, quasi con le lacrime agli occhi.
<Smettila.>
Sussurrò.
<Smettila di tentare di entrare nella mia testa, finirai per perderti.>
<Voglio solo aiutarti.>
Ero lì, ero al suo fianco, avrei solo dovuto allungare una mano.
Ma lui si alzò di scatto ed io mi ritrovai ad indietreggiare, il suo sguardo di fuoco puntato su di me.
<Smettila, dannazione>
Urlò.
<Non puoi aiutarmi, nessuno può.>
<Io lo so come ti senti.>
Parlai mentre la gola mi bruciava, le lacrime che minacciavano già di uscire.
Cosa gli era successo? Quello non era il ragazzo che amavo.
<Non sai un cazzo! Né tu, né chiunque altro.>
Si avvicinò a me ed io mi ritrovai a tremare, immobilizzata dalla paura.
<Non lo sai come ci si sente, non lo sai cosa ho vissuto.>
Si allontanò da me, passandosi le mani fra i capelli.
<Passavo giorni senza mangiare perché lei spendeva tutti i soldi per comprarsi il crack, facevo il bagno nell’acqua gelida perché non pagava le bollette.>
Per un attimo, in mezzo a tutta quella furia, vidi delle lacrime nei suoi occhi, ma lui non le lasciò scendere.
<Portavo il suo corpo privo di sensi dal pavimento al letto e le mettevo una cazzo di coperta addosso perché non volevo che sentisse freddo.>
Cadde a terra in ginocchio, io lasciai scendere le mie lacrime alla vista di quella scena.
Era così triste, così fragile.
<Ero solo un bambino…ero un cazzo di bambino e dovevo sopportare tutto quello, credi sia giusto?>
Il mio corpo si mosse senza aspettare un mio segnale, in un attimo mi inginocchiai di fronte a lui e gli presi il viso fra le mani.
<Credi sia giusto, Aly?>
I suoi occhi erano ormai appannati di lacrime, le mie scendevano senza sosta.
<No...>
Sussurrai accarezzandogli il viso.
<No, non è giusto.>
Appoggiò il viso alla mia spalla ed io sentii le sue lacrime bagnare la mia maglietta.
Tirai un sospiro di sollievo, finalmente le lasciava uscire, finalmente si concedeva un po’ di debolezza.
<Mi dispiace Aly...>
Il suo viso era ancora incastrato tra il mio collo e la mia spalla, mentre io gli accarezzavo i capelli.
<E per cosa? Non hai fatto niente di male.>
Cercai qualcosa da dire, preparai un discorso mentale, catalogai ogni parola e la misurai con attenzione. Volevo dirgli che era giusto cedere al dolore ogni tanto, che è il prezzo da pagare per le persone come noi. Quelle persone che hanno sofferto troppo e che si portano il peso del dolore sulle spalle ogni giorno.
Volevo dirgli che quelle lacrime erano giuste, che piangere dimostra che abbiamo un cuore, che non è ancora distrutto del tutto, che sa ancora battere.
Volevo dirgli che lo amavo, anche così, anche fragile.
Che lo avrei amato sempre e che avrei lasciato che le sue lacrime bagnassero tutte le mie magliette, che avrei amato anche quelle, anche se lui le odiava.
Ma non ne ebbi il tempo, perché lui si alzò lasciandomi da sola sul pavimento, ogni traccia di quel dolore sparita, nessuna lacrima a bagnare quel bellissimo viso.
<Non ancora.>
Disse, voltandomi le spalle, dirigendosi verso la porta di casa.
<Non ho ancora fatto niente di male.>
Aprì la porta e sparì nel buio della notte.
Io rimasi immobile sul pavimento, incapace di muovermi o di ragionare, mentre ascoltavo il rombo della sua moto farsi sempre più lontano fino a sparire.

Come amano le stelleWhere stories live. Discover now