24. Hayat

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Edith

Essere genitori era qualcosa di davvero complicato. L'amore era senza dubbio una delle emozioni più potenti, ma quello verso il proprio figlio, a mio parere, superava il resto.

Almeno, così avrebbe dovuto essere.

Essere pronti a sacrificare tutto, persino la propria vita e la propria felicità, pur di vedere un tenero sorriso sul volto del proprio bambino. Era ciò che avevo compreso grazie ai miei genitori.

Eppure, quella mattina avevo imparato che non era necessariamente la realtà: non tutti i genitori amavano i propri figli, né raccontavano loro le storie della buonanotte; non tutti giocavano con loro, né se ne prendevano cura. Fino al giorno prima, pensavo che fosse qualcosa di normale, ma mi sbagliavo.

Iria non aveva vissuto ciò che avevo vissuto io. Lei non aveva avuto un padre come il mio. Jacques Durand se n'era andato via e chissà se avrebbe mai fatto ritorno. Aveva abbandonato la propria figlia, sangue del suo sangue, e aveva creduto alle parole della perfida moglie.

Mio padre, invece, era sempre stato il mio eroe, sin da quando ero bambina. Mi sorrideva, mi rimproverava quando era necessario e mi scoccava affettuosi baci sulla testa. Mi aveva insegnato tutto ciò che sapevo e aveva fatto del suo meglio per rendermi la donna che ero.

Io ero orgogliosa di mio padre. Gli ero grata.

Iria, al contrario, non lo era. No, lei era adirata con suo padre e ne aveva tutte le ragioni. Perché egli non era un genitore, ma era a malapena un uomo. Un vero padre non abbandonava i propri figli, bensì li amava incondizionatamente.

Antoine De Maris era un padre. Jacques Durand non lo era. Era un concetto semplice, eppure ciò non ometteva che fosse anche estremamente doloroso per la mia amica.

Entrai nella stanza di Iria e trovai la giovane sdraiata nel proprio letto. I capelli castani erano sparpagliati sul cuscino, mentre gli occhi nocciola erano arrossati dalle lacrime. Mi avvicinai a lei e mi sedetti sulla sedia davanti al suo letto.

Iria era un'anima pura, non fragile. Era un'anima candida e trasparente e, se mia nonna fosse stata lì, lo avrebbe confermato. Era come una candela. Veniva accesa dalle persone, con lo scopo di aiutarle, ma nel frattempo lei si consumava pian piano. Iria era fatta così: era sempre disponibile per tutti, eppure alcune volte finiva per bruciare sé stessa.

«Oh, Iria...» sussurrai, passando una mano tra i suoi capelli.

«Sono stanca, Vostra Maestà. Ho sempre lavorato sodo, subendo insulti e percosse, ma in fondo non mi importava. Mi sono rimboccata le maniche e ho faticato. Le mie mani si sono consumate a causa dei lavori e le mie guance a causa delle lacrime. Sono scappata e, una volta arrivata qui, avevo creduto che tutto fosse finito. Ci avevo sperato» mormorò la dama di corte, alzandosi a sedere per guardarmi negli occhi.

«E hai fatto bene. La speranza può uccidere, non lo nego, ma chi non la prova non può considerarsi vivo» la rincuorai.

«Io vi sono grata, Vostra Maestà. Mi avete dato un lavoro, un tetto sopra la testa e del cibo caldo. Non saprò mai come sdebitarmi.»

«Non dire così, Iria. Quando ti ho trovata, ho sentito il grido della tua anima e ti ho aiutato. Tutto qui. Non mi devi niente, non ora che sei la mia dama e, soprattutto, mia amica» la rassicurai con un sorriso malinconico, afferrandole la pallida mano.

Lei, in risposta, ricambiò il sorriso e si asciugò le guance con il palmo.

«Adesso è meglio che ti riposi, è stata una giornata dura per te» le consigliai, per poi alzarmi e dirigermi fuori dalla porta.

Life Goes OnWhere stories live. Discover now