Cap. 18

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Nonostante avessi faticato a staccarmi dalla mia famiglia e, soprattutto, dalla piccola nuova arrivata ben presto arrivò il momento di ripartire per Milano e lasciarmi alle spalle la settimana surreale che avevo vissuto.

Per la prima volta dopo anni mi ero sentita di nuovo a casa, capace di vivere le piccole bellezze quotidiane con cui la vita aveva deciso di omaggiarmi giorno per giorno, senza soffermarmi sui lussi grossolani che avevo collezionato nel tempo.

Mi ero crogiolata nel calore delle braccia dei miei genitori e negli aneddoti ancora vividi delle marachelle che io e mio fratello combinavamo da piccoli, augurandoci che sua figlia non ereditasse i nostri caratteri avventati e piuttosto testardi.

Avevamo riso in continuazione e le lacrime di gioia si erano spesso mescolate ad un grande buco malinconico perché, lo sapevamo bene, prima o poi saremmo dovuto tornare alla vita di tutti i giorni: noi quattro, divisi in città diverse, a collegarci soltanto gli squilli molto spesso ignorati del cellulare.

Lasciandomi coinvolgere in modo quasi totalizzante dalla mia famiglia, avevo permesso che Manuel se ne stesse decisamente in disparte; egli stesso, probabilmente sentendosi di troppo, aveva voluto subito prendere le distanze dalla nostra ilarità e si era rintanato in un bozzolo di pensieri e taciturnità.

Avevamo soggiornato nella stessa casa ma senza mai scambiare più di due parole di circostanza e abbozzare qualche mezzo discorso imbarazzato quando ci trovavamo da soli nel medesimo luogo per più di due minuti. La situazione aveva scombinato i miei piani e mi faceva più male di quanto non volessi ammettere dato che mi ero finalmente decisa a riaccoglierlo nella mia vita, passo per passo, considerando che dopo tutto non ci fosse nessun altro più di lui a meritarlo.

Era sbagliato? Forse. Ma se la mia pelle e tutti i miei sensi non riuscivano affatto a respingerlo, ero pienamente conscia del fatto che persino la mia mente si stesse lasciando abbindolare dal suo magnetismo che non mi permetteva di lasciarlo andare.

"In fondo la fine di una relazione è colpa di entrambi, no?" mi ero domandata spesso in quelle ultime giornate, quando i suoi sguardi neutrali mi colpivano solo da una certa distanza.

Speravo solo che anche lui riuscisse ad accorgersi dei miei sforzi e di quanto, mio malgrado, avessi accantonato il mio orgoglio. Non era mai stato semplice per me fare un passo indietro.

Così, quel mattino, ci ritrovammo in giardino, come un déjà-vu di pochi mesi prima, solo che il mio umore poteva dirsi completamente diverso così come il mio accompagnatore.

Mio padre aveva già caricato le nostre borse nel bagagliaio dell'auto di Manuel, mentre quest'ultimo, seduto dal lato dell'autista, tentava di sbrinare il vetro con l'aria calda azionata al massimo dentro l'abitacolo.

Anche quel mattino aveva deciso di rimanere in silenzio, senza degnarsi di emettere una parola a meno che questa non fosse volta ai miei genitori, i quali aveva ringraziato caldamente per la loro ospitalità. Potevo intuire quanto anche loro si fossero ammorbiditi attorno al mio accompagnatore, che li aveva conquistati con il suo charm innegabile e la sua mente arguta. A papà piacevano così tanto le sue battute taglienti ma allo tempo gentili e considerevoli e mamma andava pazza del suo bel viso (più di una volta aveva ribadito che in futuro avremmo avuto dei bambini bellissimi, poi si era redarguita incolpando la sua euforia da nonna novella).

Probabilmente ci sarebbero state più vittime da raccogliere se non fossimo riusciti a ritrovarci nemmeno questa volta, il che mi rincuorava se dovevo dirla tutta, poiché per una volta avrei ricevuto empatia e non solo cieca pietà.

Recuperai i miei ultimi averi e poi anche io affiancai Manuel in macchina, seguita da mio padre che, aspettando che mi accomodassi sul sedile, si abbassò per raggiungere il mio livello – sai che non siamo troppo sentimentalisti – fece – ma ci sei mancata davvero tanto – ammise. Non lo avevo mai visto così aperto e vulnerabile in effetti.

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