Dopo qualche istante si schiarì la voce – perlomeno non stiamo parlando di Manuel – commentò solenne.

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- Jennifer stai andando piuttosto bene – commentò il mio produttore – però sento che manchi ancora qualcosa. Mi aspetto leggermente di più da te – fece, poggiando la sua grande mano sulla mia spalla. Notai lo scintillio degli anelli che gli decoravano le nocche e deglutii; certo, il suo vestiario ricercato non era quello di un semplice imprenditore, difatti egli voleva un prodotto che sprizzasse "lusso" da ogni poro, per tenere alto il nome della sua etichetta.

Ben presto fece un passo indietro, allontanandosi dalla mia figura dalle braccia conserte in un abbraccio schivo. Non avevo intenzione di aprirmi con lui, di lasciare che entrasse nella mia mente per poterne fruire.

Afferrò la maniglia dello studio e la fece cigolare – vieni con me, andiamo un istante nel mio ufficio- suggerì, scostandosi di lato così da lasciarmi libero il passaggio nel corridoio.

Attraversammo un lungo passaggio fatto di piastrelle in marmo e colonne candide, poi presi posto al suo cospetto, di fronte alla scrivania massiccia.

Egli afferrò un tagliacarte in ottone, la punta leggermente arrotondata premuta su uno dei polpastrelli paffuti mentre, con le dita arricciate attorno al manico, ne faceva scorrere la lama apparentemente non più affilata dapprima contro il profilo della mano per poi passarla sul dorso. I suoi occhi non cercarono mai i miei, persi nel gioco minuzioso del coltello che non scalfiva minimamente la sua pelle arrossata.

Non riuscivo a capire perché mi trovassi lì, con quell'uomo piuttosto singolare, senza che nessuno dei due proferisse parola.

Presi a mordicchiare l'unghia del pollice, nervosa finché la porta dell'ufficio non venne spalancata di nuovo: Thomas si affacciò sull'uscio e, rivolto un cenno al padre, prese posto di fianco a me. Si sporse verso il mio orecchio – ciao – mormorò, indirizzandomi un sorriso appena accennato.

Io scossi la testa piano così che nessuno si accorgesse dei miei movimenti cauti e mossi le dita nella sua direzione.

- Signor...- feci per parlare ma mi bloccai. Realizzai di non sapere effettivamente il nome del mio produttore, non glielo avevo mai chiesto e lui non si era mai presentato a dovere. C'era così tanta subordinazione tra di noi, il distacco perenne di chi era nulla più che una macchina da lavoro. Non mi ero mai trovata in una situazione simile prima d'ora, io che consideravo i membri del mio staff collaboratori insostituibili e indispensabili.

- Chiamami Marco – fece lui, un sorriso languido in volto – ormai sei di famiglia e spero che sentendoti a casa inizierai a collaborare –

Aggrottai le sopracciglia – non funziona così – borbottai – non posso fare ciò che mi chiede se non è un impulso spontaneo. Non mi piace che la mia musica sia macchinosa –

Marco ridacchiò e giunse le mani sopra la scrivania – ma è proprio per questo che siamo qui. E' evidente che tu abbia bisogno di contatto umano mentre lavori, ti serve dell'empatia giusto? Da oggi in poi Thomas lavorerà con te. Sarà il tuo confidente, la tua spalla su cui piangere, la tua musa. Spero che questo piccolo aggiustamento porti i suoi frutti –

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- Non montarti troppo la testa, nemmeno a me piace questa sistemazione – dichiarò Thomas.

Eravamo seduti sul pavimento dello studio da una buona mezz'ora, incapaci di trovare un senso alla situazione singolare in cui eravamo stati spinti. Le forzature non mi piacevano affatto, ero sostenitrice degli incontri casuali, della predestinazione ad imbattersi in nuove persone nel proprio cammino solo se questo accadeva in maniera agevole e naturale.

Backstage|| Hell Raton.Where stories live. Discover now