Quando la voce dall'altro lato si stagliò lungo la linea telefonica però, mi pentii di non aver controllato il mittente. Mi sentii come se avessi dimenticato di guardare dallo spioncino del portone prima di aprire dopo aver sentito il suono del campanello.

Il tono caldo e stabile che mi parlava con tranquillità fin troppo studiata non apparteneva di certo a colei che mi aveva messa al mondo e sentirlo così di sorpresa fu come ritrovarsi intrappolata in un ossimoro: da un lato ero combattuta dalla voglia di riagganciare, ma il bisogno di sentire Manuel pronunciare il mio nome ancora una volta era del tutto sopraffacente.

- Ciao – mormorò imbarazzato – ti disturbo? –

Mi morsi il labbro e intrecciai una mano tra i capelli tirandone le punte. Dovevo premurarmi che non fosse un sogno, un frammento della mia immaginazione. – No, che succede? –

Manuel respirò piano, poi si schiarì la voce – stavo riordinando e ho trovato un paio di cose tue qui. Pensavo volessi riaverle. Puoi passare quando vuoi, sarò in casa tutto il giorno –

Io socchiusi gli occhi e gettai la testa all'indietro, contro il muro freddo – sto arrivando –

****

Casa di Manuel sembrava un luogo inesplorato benché non fosse cambiata affatto dall'ultima volta che vi avevo messo piede.

Il parquet lucido, il corridoio vuoto e il salotto straordinariamente in ordine con il mobilio scuro privo di polvere. Aveva tirato le finestre di modo che la luce entrasse, parzialmente oscurata dall'ampio televisore che occupava gran parte della parete.

Anche il suo gatto sembrava non essersi mosso dal suo posto designato, incastrato in un angolo del divano. Mi sedetti lì di fianco e lo accarezzai con la punta delle dita, dietro le orecchie dove avevo imparato fosse il suo punto preferito.

Sorvolai le mura bianche con gli occhi socchiusi e mi soffermai per un istante sull'attaccapanni; intrecciata tra le braccia di legno scuro c'era ancora la mia vecchia sciarpa rossa, una specie di portafortuna che avevo abbandonato la sera della finale di X-Factor, ormai quasi due anni prima. Era mai possibile che nei miei momenti di assenza avesse così tanto bisogno di qualcosa che lo legasse a me da non essere riuscito a sbarazzarsene?

Così presa dalle miei reminiscenze non mi accorsi che Manuel fosse comparso dalla porta della sua stanza, finché non mi sedette di fianco.

Il suo ginocchio mi sfiorò delicatamente e, come di riflesso, mi allontanai leggermente per sottolineare una distanza fisica che, mio malgrado era già stata stabilita.

- Qui c'è tutto quello che sono riuscito a trovare – fece, indicando una busta chiara – non credo sia rimasto nient'altro. Nel caso in cui mi fossi dimenticato qualcosa puoi sempre tornare, hai ancora la chiave no? –

Spalancai gli occhi e presi a frugare nelle tasche dei jeans, poi nel cappotto – oh sì – bisbigliai, riuscendo a recuperarle – ecco, tieni. Non mi sembra giusto che le abbia ancora –

Lui annuì e il suo sguardo cadde sul mio volto. Si mosse più vicino, incamerando l'immagine del mio sguardo vuoto, turgido di apatia e ore di sonno arretrato; le sue pupille percorsero il solco spesso delle mie occhiaie, opposte alla pelle candida di un pallore cinereo e la bocca rossa e screpolata. Poi inspirò piano ed espirò dischiudendo leggermente le labbra – starai bene? – domandò apprensivo.

Il suo viso difronte al mio era come la mia stessa immagine riflessa in uno specchio.

Istintivamente intrappolai le sue dita tra le mie, spaventata da un suo possibile rifiuto, ma non trovai alcuna opposizione quando presi a sfregare il pollice sul dorso della sua mano.

- Adesso non lo so – risposi – prima o poi di sicuro –

Forzai un piccolo sorriso, deglutendo con forza per placare le parole sulla punta della lingua. "Sei stato l'amore più bello della mia vita" avrei voluto dirgli "non ce ne saranno altri così dopo di te", ma la verità è che forse avrei mentito perché non potevo saperlo. Non ero a conoscenza di ciò che poteva trovarsi dietro l'angolo quando avrei smesso di guardare, ma di una cosa ero certa. Dovevo smettere di fissarmi alle spalle e sperare di trovarlo ad aspettarmi.

Così uscii dal suo appartamento e chiusi la porta, mi presi il mio tempo per ricordare la vista del suo portone, del suo nome inciso sul campanello, poi recuperai il cellulare dal fondo della borsa e lo sbloccai cercando il suo contatto.

Non ci fu alcuna esitazione quando premetti il pulsante "cancella".

****

La Sony Records, con il suo ampio studio di registrazione era l'unico luogo che sentii potesse accogliermi in quel momento. Potevo entrare e uscire a mio piacimento, a patto che non lo facessi a mani vuote. Così quando quel pomeriggio contattai il direttore promettendogli del nuovo materiale egli fu più che contento di spalancarmi le porte del suo personale santuario.

Mi fece accomodare nella sala di registrazione, tra le calde pareti ovattate e si posizionò dall'altro lato della camera, a separarci solo una spessa lastra di vetro.

- Voglio vederti all'opera – spiegò, incrociando le mani sopra le ginocchia accavallate – sai Jennifer, tutti i discografici con cui hai lavorato parlano di come il tuo volto cambi mentre incidi le tue canzoni. Dicono che non succede a nessun altro, tranne che a te. Devo esserne testimone, voglio avere tutto ciò che sei in grado di dare – aggiunse – coraggio! In fondo sei arrabbiata, no? Sei sola, hai soltanto la musica adesso – mi provocò.

Tanti ritengono che l'istigazione sia ciò che di più potente esista di fronte ad un blocco artistico ma la veridicità delle sue parole che mi scagliava addosso senza remore mi fece sentire vulnerabile, piccola quasi.

Era così che apparivo agli occhi della gente? Una ragazza sola, avida della sua musica e intorpidita dalla mancanza di emozioni forti?

Chiusi la porta alle mie spalle; c'era uno sgabello in piedi difronte ad un microfono e, riposta con cura all'interno della custodia in pelle, una chitarra acustica.

Mi sedetti e tesi le mani verso lo strumento, subito le mie dita scivolarono sulle corde lisce, mettendole a punto, poi focalizzai un'immagine mentale che potesse fare breccia nel mio cuore apparentemente avido e, schiarita la voce, iniziai a cantare.

Tuttavia, ebbi solo il tempo di intonare le note iniziali prima che un forte trambusto mi interrompesse.

Posai la chitarra e alzai gli occhi dal taccuino che avevo aperto sul leggio eretto difronte a me; accanto al direttore era comparso un ragazzo piuttosto alto, sorrideva imbarazzato e, con il gomito piegato dietro la testa si passava le dita tra i folti capelli dorati.

Il mio capo mi fece un cenno con la mano, così che li raggiungessi dall'altro lato della cabina – Jennifer – mi richiamò a gran voce – vieni, c'è una persona che voglio presentarti –

Mi chiusi la porta alle spalle e, titubante, mi sedetti di fronte al nuovo arrivato. Lo scrutai bene in volto: aveva gli occhi chiari e le labbra carnose adornate da un sorriso impreciso dai denti irregolari, difatti notai subito un piccolo spazio tra i suoi incisivi.

Aveva una bellezza singolare, quasi irriverente, ma la scintilla nelle sue iridi cristalline tradiva la facciata beffarda dei lineamenti marcati del suo viso.

Il direttore si schiarì la voce e mi guardò con la coda dell'occhio, accennando una piccola risata di sbieco – questo è mio figlio Thomas, lavorerete spesso assieme – dichiarò – inoltre penso che conoscervi meglio possa giovare ad entrambi –

Ciao!

E' sabato e penso che nessuno leggerà questo capitolo, ma è stato davvero un parto (oltre che una produttiva pausa dallo studio) quindi spero che ne valga la pena.

Ho voluto introdurre questo nuovo personaggio e non voglio spoilerarvi nulla ma credo si possa intuire che lo vedremo in giro per un po'.

Detto questo spero che i primi capitoli vi stiano piacendo e come al solito, per leggere i prossimi, tutto ciò che dovete fare è lasciarmi qualche stellina e/o commento se vi va!

Un bacio <3

Backstage|| Hell Raton.Where stories live. Discover now