Disaster

By wrongperfectly

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COMPLETA. #1 in Teen Fiction il 7.02.19 #1 in Fan Fiction il 21.04.20 All'apparenza Cassie Anderson e Justin... More

Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Capitolo 50
Capitolo 51
Capitolo 52
Capitolo 53
Capitolo 54
Capitolo 55
Capitolo 56
Capitolo 58
Capitolo 59
Capitolo 60
Capitolo 61
Capitolo 62
Capitolo 63
Capitolo 64
Capitolo 65
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo 57

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By wrongperfectly

<<Guardami>> mi intima la donna dal camice bianco, puntandomi la luce nell'occhio. Seppur il mio sguardo sia focalizzato sulla piccola torcia accecante, riesco a percepire quello teso di Justin, il quale se ne sta in piedi a braccia incrociate in un angolo, sulla mia pelle che mi mette non poco a disagio.
<<La pupilla reagisce in modo normale>> constata la dottoressa Fay, prima di posare l'oggetto tra le sue mani ed afferrare, invece, una penna con la quale inizia a scrivere su quello che presumo sia un referto medico. Osservo attentamente il movimento veloce e deciso della sua mano e come la sua fronte si corruga leggermente mentre lo compie.

<<Quindi posso tornare a casa?>> le chiedo speranzosa.

Sono in questo pronto soccorso da due ore, ormai, ed è più di quanto avrei mai desiderato poterci stare. Non mi piacciono gli ospedali, i corridoi grigi e tristi e l'odore di disinfettante, non mi sono mai piaciuti; mi fanno pensare a cose a cui preferisco non pensare.

La donna annuisce. <<Sì, ma evita i movimenti bruschi e cerca di riposare. Potresti sentirti un po' disorientata ed avere dei capogiri nelle prossime ore>> si raccomanda prima di congedarsi dalla stanza.

<<Mi hai fatto spaventare da morire.>>
Stringo le dita intorno al bordo del lettino sopra al quale sono seduta, osservando i miei piedi penzolare da esso, piuttosto che trovare il coraggio di guardare Justin. Mi ha visto perdere i sensi sul ciglio della strada, è comprensibile che si sia spaventato.

<<Sto bene>> gli rispondo. Beh, almeno fisicamente è così, ma dopo quello che ho visto non posso garantire per il mio stato emotivo e psicologico.

Timorosa, alzo lo sguardo verso di lui e lo vedo scuotere la testa, un'espressione seria sul suo volto, come se non mi credesse. <<Cassie, sei svenuta ed hai sbattuto la testa. Non stai affatto bene>> nel suo tono di voce scorgo la preoccupazione, ma anche la volontà di capire quello che gli sfugge.

<<Ho detto che sto bene>> ripeto con un tono ed un'acidità che stento a credere mi appartengano e che sconvolgono me tanto quanto lui. Faccio un respiro profondo nel tentativo di calmarmi e ricordarmi che non ho alcun diritto di riversare la mia agitazione su di lui, la cui unica colpa è quella di volersi assicurare che io stia bene. E allora, con occhi bassi ed una voce che somiglia più alla mia, cerco di rassicurarlo. <<È stato solo un calo di pressione e questo- indico il taglio da tre punti sulla mia tempia sinistra -questo è solo un graffio.>>
Lui fa per parlare, lo vedo; vuole dire qualcosa, ma non lo fa e non so se essere più grata o frustrata per questo. Quello che, invece, so è che voglio uscire da questo posto tetro e freddo il prima possibile; non mi sento al sicuro qui, ma credo che ora come ora non possa sentirmi al sicuro da nessuna parte. Perciò balzo di scatto in piedi, mossa che mi procura subito un giramento di testa e mi fa pentire di non aver dato ascolto agli avvertimenti della dottoressa.
Barcollo, ma prima che possa ripetere la scena di qualche ora fa, davanti alla pizzeria, due mani dal tocco caldo e familiare mi avvolgono le braccia, in modo tale da potermi sorreggere.
<<Fa' attenzione>> mormora Justin alle mie spalle. Mi volto e finisco con incrociare i suoi occhi color caramello. Rimango senza fiato per il modo in cui mi sta guardando; come se fossi un piccolo vaso di porcellana in procinto di cadere e rompersi in mille pezzi ed io non voglio essere questo.

Non voglio essere fragile.

Non voglio essere debole.

Non più.

<<Portami a casa>> la mia è una supplica, più che una richiesta. <<Per favore.>>
Lui annuisce, una mano sulla mia schiena mentre con l'altra afferra la mia giacca di jeans e mi guida fuori dall'edificio.

***

Vorrei che potesse esistere una manopola del volume per i pensieri, per metterli a tacere quando si fanno troppo fitti ed intricati, quando pensare diventa sinonimo di sofferenza, ma sfortunatamente non esiste niente di simile.

Il tragitto in auto verso casa mia viene percorso nel più religioso e teso silenzio fatto ad eccezione per la tempesta che si sta scatenando nella mia mente in questo momento; quella la sento forte e chiara. Ogni tanto mi ritrovo a voltarmi verso Justin, concedendomi il lusso di guardarlo: la mascella tesa, gli occhi fissi sulla strada, le mani strette intorno al volante. È pensieroso.

Una volta giunti a destinazione lui parcheggia di fronte al vialetto, ma nessuno dei due si muove dal proprio sedile.

<<So che qualcosa ti ha turbato, Cassie>> esordisce guardando un punto indefinito del parabrezza, prima di voltarsi verso di me, allarmata dalla sua perspicacia. <<Tu puoi fingere quanto vuoi, ma io so che è così.>> Adesso più che allarmata sono spaventata da come mi conosce, da come riesca a leggermi anche quando non voglio che lo faccia.

<<Vuoi sapere perché non ti ho detto di Stanford?>> chiedo ignorando volutamente la sua affermazione e riprendendo, invece, il discorso che stavamo affrontando prima che... Svenissi.
Lui non risponde, ma la sua espressione curiosa mi induce a proseguire. <<Perché hai sempre creduto che fossi capace di fare grandi cose, che il mio futuro fosse roseo e praticamente perfetto- gesticolo animatamente ed un leggero velo di lacrime mi annebbia la vista per un istante, il labbro mi trema -Non volevo deluderti. Non volevo che scoprissi che non sono perfetta come credi.>> Eccola qui, la mia paura: Justin ha sempre riposto tanta fiducia in me, al punto tale da allontanarmi più volte temendo di poter essere di ostacolo per il mio futuro. Ricordo anche di come si definì un disastro, la prima volta che mi disse di amarmi e di come il mio cuore si strinse in una morsa nel sentirlo pronunciare quelle parole. La verità è che il disastro irreparabile sono io, sono io quella difettosa tra i due, sono io a non meritare il suo amore ed ho paura che quando se ne accorgerà se ne andrà a gambe levate ed io non potrò fare nulla per impedirglielo.

Perciò, senza attendere una sua risposta che non sono sicura di voler sentire, apro lo sportello e scendo dall'auto in tutta fretta. Il rumore sordo provocato da un'altra portiera che si apre e si chiude con violenza arriva subito alle mie orecchie.

<<Cassie, aspetta.>> La sua falcata gli permette di raggiungermi ancor prima che riesca a salire i gradini del portico, ma non prima che la porta di casa si apra, rivelando ai nostri occhi la figura di un Robert Anderson piuttosto adirato.

Grandioso, ci manca solo che mi rimproveri per chissà cosa.

<<Signorina, il coprifuoco era un'ora fa e... Che hai fatto?>> chiede allarmato, una volta notati i punti sulla mia testa.
<<Niente, è solo un graffio>> gli assicuro senza, però, avere successo, dato che tenta di scagliarsi su Justin alla velocità della luce ed io, istintivamente, non posso fare a meno di mettermi nel mezzo, prima che qualcuno finisca col farsi male. <<Sei stato tu? Che diavolo hai fatto a mia figlia?!>> il tono accusatorio nelle sue parole è quasi agghiacciante come la vena che pulsa sulla sua fronte ed i suoi occhi azzurri che tutto sembrano fuorché rassicuranti. Non credo di aver mai visto mio padre tanto arrabbiato come in questo momento, lui che di solito è calmo e tranquillo.
<<Papà, fermo. Non è stata colpa di Justin!>> gli dico continuando a fare da scudo al biondo. <<Sono caduta ed ho sbattuto la testa e così siamo andati al pronto soccorso, ma sto bene.>> Il cipiglio sul suo volto sembra svanire parzialmente ed io posso cacciare un sospiro di sollievo quando la sua pelle torna ad assumere un colorito normale ed il suo sterno inizia ad abbassarsi ed alzarsi regolarmente.

<<È la verità?>> indaga, scoccando un'occhiata prima a me e poi in direzione di Justin.

<<Sì, è la verità, Signor Anderson>> risponde lui per entrambi, il tono sicuro e per niente intimidito dalla furia di mio padre. <<Le assicuro che non farei mai del male a sua figlia.>> Onestamente, non so se la sua affermazione sia più indirizzata a me, per quello che gli ho appena confessato in macchina, o a lui. Le mie guance iniziano a tingersi di rosso, non tanto per le parole, quanto per il fatto che le abbia dette di fronte a mio padre, il quale, a dirla tutta, sembra più a disagio di me, tant'è che si schiarisce la gola imbarazzato. <<Oh, okay...>> si limita a dire, un po' impacciato. <<Adesso, però, è l'ora di rientrare, Cassie e tu va' a casa, ragazzo.>> Justin annuisce, indirizzando, poi, lo sguardo verso di me.
<<Cassie.>> Non mi rendo conto di essere impalata fino a quando la voce di papà non mi richiama all'attenzione. Allora, con un groppo in gola, mi concedo di lanciare  un'ultima occhiata verso il ragazzo, prima di raggiungere la porta e chiuderla alle mie spalle, senza aggiungere una parola.

<<Cassie, io...>> esordisce papà, ma lo interrompo, prima che possa dire qualsiasi altra cosa. Non ho nemmeno la forza per dirgli che ha esagerato, là fuori, cinque minuti fa. In questo momento vorrei solo poter sbattere la testa contro il muro ripetutamente.
<<Sono stanca, è stata una lunga giornata>> gli dico passandomi una mano sul viso. <<Possiamo rimandare a domani qualsiasi cosa tu voglia dirmi?>>

Lui si stringe nelle spalle, le mani nelle tasche dei pantaloni. <<Certo.>>
Annuisco. <<Buonanotte.>>
<<Buonanotte.>> lo sento dire, quando sono già per le scale.

Raggiungo il piano superiore ed una volta chiusa la porta di camera mia non resisto più, finendo con l'accasciarmi contro la superficie in legno con le gambe rannicchiate al petto. Il mio respiro inizia a farsi sempre più pesante, mentre il sangue mi fischia nelle orecchie.

Respira.

Le pareti della mia stanza sembrano farsi sempre più piccole e l'ossigeno diventa sempre meno.

Respira.

Il mio corpo è rigido come il tronco di un albero, eppure, nonostante ciò, continuo a tremare come una foglia.

Respira.

D'un tratto, vedo il suo volto impresso nella mia mente: quegli occhi grigi, maligni, che speravo di non dover rivedere più e che non hanno mai fatto trasparire alcuna emozione positiva, quella bocca viscida dalla quale non facevano altre che uscire cattiverie una dopo l'altra ed infine quelle mani che più volte ho visto posarsi sulla faccia di mio fratello e che, luridamente, sono riuscite a posarsi anche sul mio corpo. Stringo i pugni più forte che posso; se mi concentro riesco ancora a sentire il suo tocco gelido e schifoso che vaga in esplorazione della mia pelle.

La testa mi gira ed una miriade di domande si insinua dentro di me; prima fra tutte è come, come ha fatto ad uscire di prigione? Io e mia madre lo avevamo denunciato, lo avevamo visto con le manette ai polsi e il giudice ci aveva assicurato che ne avrebbe avute per un bel po', visti anche i suoi numerosi precedenti di furto e spaccio, di cui lei, ingenua com'era, non sapeva niente. Quel giorno prese l'unica decisione da madre che avesse mai preso in vita sua: rinunciare alla custodia di me e Tyler, poiché era chiaro che non fosse capace di prendersi cura di noi.

La seconda è perché, perché venire a San Francisco?

Ma la risposta a questa domanda non mi è difficile da immaginare.

Era un freddo mercoledì pomeriggio a New York ed ero appena tornata da scuola. Solitamente non sarei rincasata prima delle sette per preparare la cena; spettava a me farlo, dato che mia madre sempre più spesso si dimenticava di farci trovare un pasto caldo in tavola. Ma quel giorno la biblioteca aveva chiuso prima ed io non avevo nessun altro posto in cui potermi rifugiare. Non mi preoccupai di sapere dove lei e quell'idiota si fossero cacciati, sapevo che Tyler fosse a casa di un amico e questo mi fece essere un po' più tranquilla; gli avevo detto di non farsi trovare in casa quando non c'ero io, altrimenti non mi sarebbe stato possibile proteggerlo dalla furia di Bruce. Odiavo quell'uomo ed odiavo mia madre per averlo fatto entrare nelle nostre vite. Non aveva mai mosso un dito per mio fratello quando lui, dopo aver alzato troppo il gomito, se la prendeva con il ragazzino, per ogni sciocchezza, fino a riempirlo di pugni: se ne stava sempre immobile ad assistere alla scena, oppure, semplicemente, si allontanava dalla stanza. Non so se fosse terrorizzata dalle conseguenze che si sarebbero potute riversare su di lei se solo avesse provato ad intervenire e nemmeno mi importa; i genitori dovrebbero proteggere i propri figli e lei questo non lo aveva mai fatto.

Tirai un sospiro di sollievo quando, entrata nell'appartamento, constatai che non ci fosse nessuno. Posai il cappotto sull'attacca panni e raggiunsi la cucina. Aprii il frigo che mi ero premunita di rifornire il giorno prima andando al piccolo supermercato di fronte casa.

Lui era lì, di fronte a me, quando richiusi l'anta.

Non lo avevo sentito arrivare e sobbalzai per la sgradita sorpresa, facendo cadere il succo d'arancia sul pavimento. Aveva quel suo solito ghigno sul viso, quello subdolo, perverso, col quale sperava sempre di potermi intimidire senza, però, riuscirci mai davvero: in lui vedevo solo un fallito che sentiva la necessità di prendersela con chi riteneva più debole per riuscire a sentirsi un uomo. In un certo senso, mi faceva pena.

<<Devi smetterla di metterti in mezzo quando do una lezione al tuo caro fratellino>> mi intimò, ma io lo ignorai. La sera prima aveva picchiato Tyler solo perché, sbadatamente, aveva fatto cadere il telecomando della televisione a terra ed era evidente che fosse arrabbiato con me per essere intervenuta. E avrei continuato a farlo, avrei continuato a proteggere mio fratello finché ce ne sarebbe stato bisogno, Bruce poteva anche andare a farsi fottere.

Feci per voltarmi ed andarmene, ma la mia indifferenza doveva averlo fatto innervosire ancora di più, perché mi fermò con forza costringendomi a guardarlo.
<<Lasciami, mi fai male!>> esclamai, allora lui strinse ancor di più la sua presa.
<<È venuto il momento di dare una lezione anche a te, ragazzina>> disse sfoggiando un sorriso che metteva i brividi.
Iniziai a divincolarmi in preda al panico quando mi trascinò lungo il corridoio, dapprima per i capelli, poi, vedendo quanta resistenza opponessi, mi sollevò di peso, gettandomi sul materasso della mia stanza.
Piansi, urlai e tentai di liberarmi mentre le sue mani vagavano sul mio corpo accarezzandolo in maniera rivoltante e tentando di togliermi i vestiti di dosso, ma lui era nettamente più forte di me fisicamente. Mi strappò letteralmente la maglietta di dosso, imprigionando le mie mani con una sola delle sue, sopra la mia testa, impedendomi, così, di opporre resistenza.
Lo vidi passare in rassegna con sguardo perfido ogni lembo di pelle che era rimasto scoperto, prima di avventarsi sul mio collo prepotentemente.
Lo supplicai in mezzo alle lacrime di fermarsi, ma non mi diede ascolto ed i suoi baci si fecero più violenti e rivoltanti.

Gridai a pieni polmoni, gridai ma nessuno mi sentiva.

<<Sei anche più bella di tua madre>> mormorò al mio orecchio, provocandomi una scia di brividi di disgusto lungo la schiena. In quel momento mi sentii sporca e capii di aver toccato il fondo. Smisi di divincolarmi, chiusi gli occhi e mi morsi con forza il labbro, sperando solo che quell'incubo finisse presto, che qualsiasi cosa volesse farmi sarebbe stata rapida ed indolore. Mi arresi, restando inerme alla mercé di quel bastardo.

Volevo solo che finisse, che prendesse quello che voleva e che se ne andasse.

Ma poi successe l'inaspettato:

Tyler.

<<Allontanati da lei, figlio di puttana!>> si gettò addosso al mio assalitore senza pensarci due volte. Lo spinse così forte da farlo cadere sulla scrivania che andò distrutta. In quel momento ringraziai il cielo; era solo per merito suo se non era accaduto quello che stava per accadere. Ero grata che fosse tornato prima del previsto, tuttavia mi sentii anche in colpa per la scena a cui aveva assistito; un quindicenne non dovrebbe mai vedere certe cose. Non spettava a lui prendersi cura di me, ero io la più grande ed era il mio compito quello di pensare a salvaguardare entrambi.

Quella volta, però, fu lui a proteggere me.

Bruce ci scoccò un'occhiata di odio, quando riuscì a rimettersi in piedi e poi, barcollando per la botta presa, lo vedemmo uscire dalla stanza ed anche dalla nostra vita.

O almeno, così pensavo.

Fino ad oggi.

Respira, continuo a ripetermi mentre mi abbandono ad un pianto soffocante nell'oscurità della mia camera.

***

Non sono andata a scuola oggi, così come non ci sono andata ieri o l'altro ieri. Per la verità non ho praticamente mai lasciato la mia camera nelle ultime quarantott'ore. A mio padre ho detto di essere indisposta, così che non facesse troppe domande. Ho pure evitato le decine di chiamate e messaggi da parte di Justin, non perché non voglia parlare con lui, ma perché è una situazione troppo delicata che preferisco affrontare da sola.
Sono consapevole di non poter chiudermi in casa per sempre per evitare di incappare di nuovo in quell'uomo, però il solo pensare che lui sia lì fuori, probabilmente ad aspettarmi, mi causa un attacco di panico. Tuttavia so anche che questo è ciò che vuole; che io viva nella paura e nel terrore e so anche che non sono mai stata solita a fare quello che voleva per non dargli alcuna soddisfazione.

E non intendo farlo neanche adesso.

Decisa a fare quanto mi sono ripromessa, mi costringo ad alzarmi dal divanetto di fronte alla finestra, dirigendomi verso lo specchio. Ho un aspetto orribile con la pelle pallida, le occhiaie marcate e il taglio sulla mia fronte che si sta cicatrizzando, ma non mi importa: prendo le chiavi ed esco di casa senza guardarmi indietro.

Raggiungo l'istituto guidando come non avevo mai guidato prima, tant'è che non mi stupirei se avessi preso qualche multa per eccesso di velocità, ma neanche questo mi importa adesso.

Devo sapere la verità e la devo sapere ora.

È pomeriggio inoltrato, perciò, gli unici studenti presenti sono quelli che giocano in qualche squadra sportiva o fanno delle attività extra scolastiche. Percorro il corridoio, consapevole del fatto che se vedessi qualche mio professore potrei finire nei guai per aver saltato le lezioni senza un'apparente reale motivo.

Ricordo di averlo sentito, una volta, a lezione, parlare del gruppo di scacchi che frequenta tre volte a settimana, perciò mi metto al setaccio di tutte le aule dell'ala est, la parte della scuola riservata a questo tipo di attività. Devo solo sperare che oggi sia la mia giornata fortunata.

Quando credo che le mie chance siano ormai pari a zero, scorgo una figura familiare uscire da un'aula per dirigersi verso il bagno dei maschi. Faccio un bel respiro, invocando tutto il coraggio ed il senso del pudore che mi sono rimasti e mi fiondo all'interno, senza nemmeno preoccuparmi di chiudere gli occhi mentre spalanco la porta con forza.

Un odore nauseante arriva alle mie narici e mi fa contorcere lo stomaco, non appena varco la soglia; allora è vero che i ragazzi sono degli animali.
Mi rallegro, però, nel vedere che non vi è nessun altro nel bagno e mi rallegro ancora di più nel vedere che si sta solo lavando le mani.

<<Ca-Cassie? Non dovresti stare qui>> sussulta imbarazzato.
Indietreggia, non appena faccio un passo verso di lui, quasi come se fosse... Spaventato. <<Perché, Darren?>> gli chiedo, il tono duro per nascondere il mio reale stato d'animo, frustrato e disperato. <<Perché mi hai spiata?>>

Spazio autrice

Okay, sarò breve, promesso.

Prima di tutto volevo ringraziare tutte le persone che sono arrivata fino a questo punto della storia, che siano qui dall'inizio o solo da pochi giorni. Grazie per il supporto.
In più, volevo scusarmi se vi ho fatto aspettare, ma sono un essere umano anch'io e quindi può capitare che abbia degli impegni o problemi.

Adesso, però, torniamo al capitolo: non era così che avevo in mente finisse, ma sono stata costretta a terminare qui per non rischiare di "caricare troppo" il contenuto, poiché ritengo che sia già abbastanza sostanzioso così.

Molte di voi avevano indovinato l'identità dell'uomo misterioso già nei capitoli precedenti, perciò complimenti, anche se mi sono divertita nel leggere le altre possibili teorie che avevate elaborato.

E adesso che vi aspettate? Cosa dirà Darren a Cassie in sua discolpa? E perché Bruce è andato a San Francisco, secondo voi?
Sbizzarrite la vostra mente!

A presto. ❤

Melissa

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