Disaster

By wrongperfectly

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COMPLETA. #1 in Teen Fiction il 7.02.19 #1 in Fan Fiction il 21.04.20 All'apparenza Cassie Anderson e Justin... More

Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Capitolo 50
Capitolo 51
Capitolo 52
Capitolo 53
Capitolo 54
Capitolo 55
Capitolo 56
Capitolo 57
Capitolo 58
Capitolo 59
Capitolo 60
Capitolo 61
Capitolo 62
Capitolo 63
Capitolo 64
Capitolo 65
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo 29

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By wrongperfectly

Non ho chiuso occhio per tutta la notte; perciò, al mattino, non mi stupisco di avere due occhiaie grandi come una casa. Tutto quello che sono riuscita a fare, mentre mi rigiravo nel letto, è stato pensare a Justin, a quel bacio, ma anche all'incontro, a quanto fossi preoccupata per lui e ad ogni parola detta ieri sera, rendendomi cosciente di come i sentimenti che provo per lui, pur contro la mia volontà, crescano sempre di più.

Gli appuntamenti, nella mia vita, non sono mai stati una priorità e, vista l'esperienza dei miei genitori, ho sempre creduto che l'amore fosse un'utopia: un ideale, una meta che tutti gli esseri viventi rincorrono ma che, in realtà, non sono destinati a raggiungere.

Non ho mai avuto tempo, nella mia vita, per un ragazzo, e dopo quello che ho vissuto ho cominciato ad allontanare anche i pochi coraggiosi che si facevano avanti. Mai ho pensato di poter incontrare qualcuno che potesse farmi sentire come sulle montagne russe, in bilico tra l'odio e l'amore, vulnerabile ma allo stesso tempo protetta; qualcuno che mi sfidasse e mi facesse mettere tutto ciò in cui credo in discussione e, sicuramente, mai avrei pensato che quel qualcuno potesse essere Justin Bieber, uno dei ragazzi, a prima vista, più arroganti e presuntuosi che abbia mai conosciuto.

E la cosa peggiore è non sapere se per lui è lo stesso, se anche lui non chiude notte la notte e si senta perennemente in subbuglio quando siamo vicini l'uno all'altra.

I suoi intensi occhi color caramello non abbandonano la mia mente nemmeno per un istante, mentre trascino il mio corpo dalla mia stanza al piano inferiore, in cucina, dove trovo Tyler seduto davanti al bancone intento a mangiare i suoi corn flakes.

Al contrario suo, preferisco saltare la parte in cui metto qualcosa sotto i denti e passare direttamente a quella successiva: ogni cellula del mio corpo necessita una copiosa dose di caffeina. Perciò, agguanto la caraffa riposta sopra al fornello scoprendo -letteralmente- sulla mia pelle che è bella fumante; uno tra mio padre e mio fratello deve avere fatto il caffè e la cosa mi stupisce; non credevo che gli uomini della famiglia Anderson sapessero fare una cosa simile. Tuttavia, sono così stanca da non curarmi nemmeno di chiedere al ragazzo a chi debba il merito di questa impresa.

Verso il liquido nella tazza, ispirando quell'aroma amaro che tanto adoro e che subito sembra svegliarmi.

Felice, mi volto e, nonostante sia rallentata nei movimenti e nei ragionamenti non posso fare a meno di notare le strane occhiate che mi manda mio fratello facendomi sentire, in qualche modo, sotto un'inquisizione.
«Che c'è?» domando, infine, a disagio.
Lui appoggia i gomiti sulla superficie in legno ed alza un sopracciglio con fare sospettoso, «Dove sei stata ieri?»

Cerco di non irrigidirmi per la sua domanda, in fin dei conti sapevo che me lo avrebbe chiesto, «Sono andata in biblioteca, ti ho lasciato un post it sul frigo», spiego facendo spallucce con noncuranza.
«Certo...», mormora, piegando la testa da un lato, «E con chi saresti andata in biblioteca?»
Mi mordo l'interno guancia, restando in piedi di fronte a lui con la tazza tra le mani, «Una mia compagna di corso, non la conosci», dico per poi sorseggiare, nervosa, un po' del caffè. «Hai sentito Sam?» domando tentando di spostare la conversazione.
Tyler fa una smorfia, «No e nemmeno ci tengo».
A quella risposta poggio la tazza sul tavolo, ponendo le mani sulla superficie e guardandolo confusa, «Perché dici così?»

Tyler abbassa lo sguardo sulle sue mani che sta torturando, «Mi è venuta a dire che avete litigato...». Mi ero quasi dimenticata della nostra discussione, era furiosa con me tanto quanto lo ero io con lei, ma questo non l'autorizza ad andare a spifferarlo a mio fratello, nemmeno se ci esce insieme, «Insomma, sono cose vostre, non mi interessano. Ma non mi è piaciuto come ha parlato di te, così le ho detto che fosse meglio chiudere».
Non posso fare a meno di sentirmi in colpa. Allungo una mano verso la sua e «Non devi lasciarla solo perché ha litigato con me», asserisco con sincerità.

«Non fa niente, non credo di volere una relazione, comunque», mi dice alzando spalle, poi, con un sorrisetto sulle labbra continua, «Perché cercarsi una ragazza quando ho già una sorella pronta ad infastidirmi ogni giorno?»
«Ehi!» esclamo dandogli un colpetto sul braccio muscoloso. Tuttavia, se da una parte sono dispiaciuta, dall'altra mi sento sollevata: Sam ha iniziato a frequentare Tyler solo nella speranza di dimenticare un altro ragazzo, cosa del tutto sbagliata; temevo che se la loro frequentazione fosse andata per le lunghe l'unico a risentirne sarebbe stato lui e questo non lo avrei accettato.

Nello stesso istante in cui apro la bocca per poter offrire altre parole di conforto al moro, nostro padre fa il suo ingresso in cucina portando, automaticamente, a far calare il silenzio nella stanza.

Abbasso la testa sulla mia tazza per non incrociare il suo sguardo di ghiaccio. Mi sento terribilmente a disagio: non posso dimenticarmi che solo stanotte sono sgattaiolata fuori di casa, trasgredendo la sua punizione, con un ragazzo che mi ha fatto capire di disprezzare.

L'uomo, ignaro del mio stato d'animo, supera la mia figura per prendere qualcosa dalla dispensa. «Nottataccia?» domanda, ad un tratto.
Il mio campanello d'allarme inizia a suonare; sento il cuore battere più velocemente per l'agitazione e il sangue gelare nelle vene. Guardo Tyler per cercare un po' di rassicurazione, ma lui sembra confuso quanto me. Lentamente, mi volto verso di lui, «Come?» chiedo, un nodo si forma all'altezza della mia gola e quasi non mi strozzo quando incontro il suo viso accigliato.

La sua espressione si fa più rilassata e il cipiglio fa spazio ad un lieve sorriso, «Hai fatto fuori tutto il caffè», osserva afferrando la caraffa, ormai vuota.

A quel punto rilascio un piccolo un sospiro di sollievo.

Grazie al cielo.

«Ehm, sì», deglutisco, «Ho fatto tardi per preparare un test».
«Ti stai impegnando tanto nello studio», dice lui, lo sguardo di un padre fiero. Se solo sapesse che, forse per la prima volta, al momento la scuola non sia la mia priorità, probabilmente non mi guarderebbe in quel modo. Altra nota negativa dei sentimenti: ti rendono stupida e poco propensa a studiare.
«Beh, al college non sono ammessi perditempo», affermo modesta riponendo la tazza nel lavello spostando l'attenzione dal suo volto; non riuscirei a sostenere questa conversazione guardandolo dritto in faccia. Inizio a riordinare la cucina nervosamente, usando, così, le pulizie come diversivo. Tyler borbotta quando gli levo la scatola di cereali dalle mani, ma ignoro le sue proteste proseguendo nel mio intento, quello, cioè, di non aprire bocca per dire altre bugie.
«Cassie», il tono calmo e tranquillo di mio padre mi induce, però, a fermarmi e ad incrociare nuovamente il suo viso, che adesso sembra passivo di ogni emozione, «So che, in teoria, saresti in punizione per altre due settimane», inizia ed io lo ascolto attentamente chiedendomi dove voglia andare a parare, «Ti sei comportata davvero male, signorina», continua, poi, con aria di rimprovero ricordandomi della famosa sera in cui, furiosa, ho lasciato la cena di famiglia divenuta, per i miei gusti, una sorta di processo per andarmi a rifugiare in uno squallido pub e affogare i miei dispiaceri nell'alcol -dettagli di cui, tra l'altro non è a conoscenza- e aver finito col passare la notte insieme a Justin, il tutto senza nemmeno fargli sapere che fossi viva. Per questo, vuole sicuramente chiudermi in casa a vita, me lo sento, «Ma ci ho pensato e credo che tu abbia imparato la lezione».

Aspetta, cosa?

«Tieni», mi porge il cellulare che ha confiscato due settimane fa, mentre io con gli occhi sgranati e ancora incredula chiedo: «Significa che non sono più in punizione?»
«Proprio così», afferma lui mettendosi le mani sui fianchi e osservandomi coi suoi occhi blu, così diversi dai miei, dall'alto della sua statura, «Devi promettermi che non mi farai più preoccupare in quel modo, altrimenti non vedrai la luce del sole fino al giorno della tua laurea», minaccia serio, ma senza nascondere un altro piccolo sorriso.
«Lo prometto», mormoro, «Grazie, papà». Normalmente, in una situazione del genere lo abbraccerei, ma sento che il nostro rapporto sia cambiato irrimediabilmente ed io non posso fare a meno di sentirmi maggiormente in colpa adesso, soprattutto visto che solo poche ore fa ho trasgredito alle sue regole.

«Di niente», risponde l'uomo, «Ora devo fare un salto in centrale, ma sarò di ritorno per pranzo».
«Non dire cose a cui non credi nemmeno tu», interviene Tyler con sprizzante ironia ed acidità. Ecco: siamo alle solite.

Papà ignora il suo commento facendo solo qualche battuta sul non distruggere la casa nelle ore in cui sarà assente, ma ormai non fanno più ridere nessuno.

«Questo sì che si chiama culo», commenta mio fratello una volta che, uscito dalla stanza, nostro padre non possa sentirci. Lo zittisco portandomi l'indice sulle labbra; il gesto, però, sembra divertirlo, visto che inizia a ridacchiare. Improvvisamente, la sua espressione cambia quando il suo sguardo si posa sulle lancette dell'orologio appeso al muro. «Devo andare anch'io, adesso», mi dice, prima di alzarsi dallo sgabello. Fantastico, tutti gli uomini della famiglia Anderson vogliono lasciarmi da sola; il lato positivo è che avrò la casa tutta per me, almeno per qualche ora.

«Ah, sorellina», Tyler mi chiama giunto ormai sull'uscio, la mia attenzione si sposta su di lui che ha già indossato il giubbotto, lo guardo confusa mentre un ghigno attraversa il suo volto, «Salutami Bieber», sghignazza prima di chiudere la porta dietro di sé, impedendomi, in questo modo, di replicare.

Ecco: mio fratello lo sa.

Non avevo dubbi, d'altronde, se c'è una persona a cui non riesco a nascondere nulla è proprio Ty; mi conosce meglio di chiunque altro, persino meglio di quanto io possa conoscere me stessa. Lui, invece, sembra saper bene come tenere un segreto per sé: ho notato la tensione nel momento in cui si è reso conto di che ora fosse e mi chiedo cosa abbia di tanto urgente da fare il sabato mattina.

Cerco di cacciare le mille supposizioni che iniziano ad invadere la mia mente; il mio sguardo, invece, viene catturato dallo smartphone posto sopra il ripiano, ancora spento.
Justin ha detto di essere venuto a casa mia perché era preoccupato per non aver ricevuto alcuna risposta ai suoi messaggi, perciò sono curiosa di sapere cosa mi avesse scritto di tanto importante dallo spingerlo ad arrampicarsi alla mia finestra, ieri.

Premo il tasto di accensione ed inserisco il codice PIN aspettando pazientemente che la schermata si carichi mostrandomi tutte le notifiche non lette, quando qualcuno suona al campanello.

Tempismo perfetto.

Di corsa, lascio il telefono sul mobile e mi dirigo verso l'ingresso, aprendo la porta senza nemmeno controllare chi possa essere dallo spioncino.

Devo ricordarmi di farlo sempre prima di aprire, se non voglio ritrovarmi sorprese come quella che ho davanti a me in questo istante.

Riduco gli occhi a due fessure incrociando le braccia al petto, «Se sei venuta per Tyler arrivi tardi, è già uscito», dico in tono piatto.
La ragazza arrotola una ciocca dei suoi capelli ramati intorno al dito e «Ecco, in verità sono venuta per te».

Per me?

«Non sono in vena di sentire i tuoi insulti», rispondo con velata acidità.
«Credimi, l'ultima cosa che voglio fare è offenderti», afferma, «Posso?» Le sue guance rosse, in contrasto con la sua pelle pallida e il leggero imbarazzo che scorgo nella sua voce mi spingono ad annuire. Allora «Accomodati», la invito ad entrare, anche se con un po' di scetticismo.

Chissà cosa vorrà dirmi.

***

«Vuoi qualcosa? Caffè, tè, acqua o che so...».
Sam scuote la testa e «No grazie, sto bene così».
Mi sposto una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Okay...», mormoro non sapendo cos'altro dire, sedendomi di fronte a lei. Le mie dita picchiettano la superficie in legno nervosamente, mentre la ragazza continua a guardare fuori dalla finestra pensierosa, «Aaron ed io ci siamo conosciuti il primo anno delle medie, aveva stretto tanta amicizia con Luke, così spesso veniva a casa nostra», esordisce, ad un tratto, voltandosi, finalmente, nella mia direzione, «Parlava sempre di te, sai?», nell'istante stesso in cui pronuncia quelle parole un sorriso amaro si forma sul suo viso, «Eri partita da poco e lui sentiva molto la tua mancanza».

Sbatto le palpebre, confusa. «Non capisco dove tu voglia arrivare», rispondo con tutta onestà. Mi lancia un'occhiata, prima di tornare ad osservare le strade del quartiere, «Il punto è che sono sempre stata gelosa di te, ancor prima di conoscerti», confessa con imbarazzo nella voce, «Tu non eri presente fisicamente, ma lo eri nel suo cuore. Eravate solo dei bambini all'epoca, ma quando ho saputo del tuo ritorno in città mi è sembrato che il mondo mi cadesse addosso», alza le spalle in un sospiro, «Poi ti ho conosciuta e, vedendo che persona sei, la mia gelosia è cresciuta sempre di più».

Sono senza parole. Sam? Gelosa di me?

«Perché mai dovresti essere gelosa di me?»
Il suo sguardo incrocia il mio, gli occhi lucidi, «Davvero te lo chiedi, Cassie?»

Apro bocca, ma la richiudo immediatamente. Nella mia mente inizio a collegare i pezzi: il modo in cui si arrabbia con lui quando la chiama ''Sammy'', il calcio dato a Luke alla fiera per aver detto due parole di troppo, il suo sguardo spento alla mia festa di compleanno ed infine la sua reazione spropositata e, a prima vista, insensata in mensa. Adesso tutto mi è più chiaro.

«Aaron?», mormoro, cercando di fare chiarezza, «Il ragazzo di cui sei innamorata è Aaron?»
Resta un attimo in silenzio e mi sembra di vederla sussultare, poi «Non lo trovi divertente?» dice con sarcasmo, «Io sono innamorata di lui, mentre è chiaro che lui è innamorato di te», istintivamente, il mio sguardo si posa sul livido violaceo coperto adesso dalla manica della felpa: tutto può essere fuorché amore.
«Io non so che dire», ammetto sentendomi a disagio.
«Non c'è molto che tu possa dire».
Mi mordo il labbro e «Mi dispiace».
Sam allunga la mano destra posandola sopra la mia, «No, dispiace a me per come mi sono comportata», dice e mi pare sincera, provata, «Spero che potremmo essere ancora amiche». Adesso sono io quella a restare in silenzio; ho bisogno di tempo per elaborare il tutto, non sono arrabbiata con lei perché le piace Aaron, lo sono perché non me lo ha detto e per le parole che ha usato contro di me, in mensa e con mio fratello. Non posso fare a meno di sentirmi usata e presa in giro, come se la nostra amicizia fosse stata solo una messa in scena fino ad ora.

La vedo alzarsi, probabilmente il mio silenzio religioso le avrà fatto capire di dovermi lasciare un po' di spazio. Sento i suoi passi dietro di me raggiungere l'uscio della cucina per poi cessare di fare rumore all'improvviso «Glielo dirai?»
Mi volto nella sua direzione, «Non spetta a me farlo». Non potrei mai fare una cosa del genere.
Lei scuote la testa, «Parlavo di Justin», dice con un debole sorriso, «Gli dirai quello che provi?»

Justin

Leggo sullo schermo dell'iPhone il mittente della chiamata che mi è stata appena inoltrata e sono davvero tentato di non rispondere, ma alla fine decido di selezionare la piccola icona verde, almeno potrò dirgli chiaramente di non rompermi le palle. «Che vuoi?» chiedo con tono piatto. Potrà sembrare un modo brusco per iniziare una telefonata, ma d'altronde ho una certa repulsione per le buone maniere; inoltre, so per certo che anche i suoi gesti più semplici abbiano secondi fini.
«Ciao anche a te, Justin», risponde dall'altra parte dell'apparecchio. Niente da fare: la sua voce mi provoca l'orticaria pure attraverso un semplice telefono.
«Non ho tempo da perdere, quindi saltiamo i convenevoli», dico con fastidio mantenendo gli occhi ben vigili sulla strada davanti a me; non voglio rischiare di fare un incidente a causa di una conversazione con uno stronzo come lui, soprattutto, non vista la meta verso la quale mi sto dirigendo.
«Come vuoi», pur non vedendolo so per certo che starà alzando le spalle noncurante dei miei modi. Il menefreghismo è una caratteristica che ci accomuna, devo riconoscerlo, «Sono appena tornato in città e mi chiedevo se mi degnerai della tua presenza a cena, stasera».

Ma col cazzo.

«Scordatelo, ho da fare», affermo. In verità non ho alcun programma, ma sono sicuro che troverò un passatempo migliore dello stare con lui e sentirlo parlare solo di se stesso o di come sia andato il suo ultimo viaggio; il posto da megalomane egocentrico è già occupato.
«Ah sì? E cosa?» incalza.
«Non sono affari tuoi, Jason», bofonchio, le mani strette intorno al volante tanto da far diventare le mie nocche bianche.
«Justin, sono il tuo tutore», replica.

È divertente come tiri fuori questa storia ogni volta che gli faccia comodo e come, invece, non l'abbia mai fatto quando ce ne era davvero bisogno. Si sbaglia se crede di avere qualche tipo di potere su di me solo perché quel giudice maledetto ha firmato un fottuto pezzo di carta, sei anni fa, affidandogli la mia custodia: non lo aveva all'epoca e sicuro come la morte non lo ha ora.

Perciò, fermo bruscamente l'auto, «No, tu eri il mio tutore. Adesso ho diciannove anni e faccio quello che voglio», ringhio giunto al limite della sopportazione, «Sai, il fatto che abbiamo lo stesso cognome non significa che dobbiamo giocare alla famiglia felice», sputo, poi, con acidità. Non voglio avere niente a che fare con lui; per tutto il tempo che ho passato sotto il suo stesso tetto non ha fatto altro che affidarmi alle domestiche che si susseguivano in casa, perché lui era troppo impegnato a portare avanti la sua azienda del cazzo e a fare la bella vita. E queste cose, un ragazzino che ha perso tutto dalla vita, non può dimenticarle.

Devo dirgli grazie, però, in parte è merito suo se oggi sono quello che sono: una gran testa di cazzo incapace di gestire i propri sentimenti.

«Ora devo andare, ti saluto», concludo attaccandogli il telefono in faccia, senza se e senza ma.

Seduto sul sedile della mia Range Rover, riconosco immediatamente la casa dai mattoni color ocra in cui ero solito passare le giornate, un tempo. Aspetto qualche secondo prima di scendere dalla macchina e dirigermi verso il giardino dove, la persona che sto cercando, è intenta a lavare la sua auto.

Meglio così: non dovrò entrare in casa per farlo a pezzi.

Mi avvicino a passo deciso e solo in un secondo momento si accorge della mia presenza, «Bieber?», chiede stupito di vedermi. Poi lo stupore svanisce e lascia spazio ad uno sguardo truce, «Mi dispiace, Cassie non è qui. Ma immagino tu lo sappia meglio di me, visto quanto siete diventati intimi».

Questo coglione pensa davvero di sfidarmi? Illuso.

«Già...» sorrido con le mani in tasca alzando poi le spalle, «Ma io sono qui per te».

Non gli lascio nemmeno il tempo di replicare che con forza lo afferro per la maglia spingendolo violentemente contro lo sportello della macchina, «Toccala un'altra volta e giuro su mia madre che te la farò pagare, costi quel che costi», dico a denti stretti, il colletto ben saldo tra le mie mani.

Sono consapevole di tutti gli errori che ho commesso e continuo a commettere, ma mai e dico mai, ho alzato un dito contro una donna: è una cosa che non perdono, soprattutto se si tratta di lei.

Aaron, però, non sembra intimorito né dalla reazione, né dalla minaccia; al contrario, sfoggia un ghigno divertito sul suo volto, «Fa' pure, scommetto che Cassie sarà felice di venirti a trovare dietro le sbarre, magari ti troveranno una bella cella accanto a quella di tuo padre», sputa con acidità.

Vecchie ferite si riaprono nel sentire quel commento poco felice, lui lo sa, d'altronde un tempo eravamo amici; sa che non avrebbe dovuto metterlo in mezzo. Sta giocando sporco il bastardo.

E adesso l'unica cosa a cui riesco a pensare è a quanto desideri ammazzarlo di botte.

Mi ci vuole tutta la mia forza interiore per non sfogare la mia rabbia e lasciare, invece, andare la presa sui suoi vestiti, fino a liberarlo completamente, «Sai, forse hai ragione», ammetto facendo un passo indietro e passandomi una mano tra i capelli. I suoi occhi sono confusi e per un attimo penso di andarmene, dimostrandomi, così, superiore a lui, ma la tentazione è più forte di me.

Fanculo, non mi interessa essere superiore.

Una frazione di secondo dopo il mio pugno entra in collisione con la sua mascella facendolo piegare su se stesso dal dolore, «Non sono un bravo ragazzo, ma tu sicuramente non sei migliore di me».

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