Disaster

By wrongperfectly

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COMPLETA. #1 in Teen Fiction il 7.02.19 #1 in Fan Fiction il 21.04.20 All'apparenza Cassie Anderson e Justin... More

Prologo
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Capitolo 50
Capitolo 51
Capitolo 52
Capitolo 53
Capitolo 54
Capitolo 55
Capitolo 56
Capitolo 57
Capitolo 58
Capitolo 59
Capitolo 60
Capitolo 61
Capitolo 62
Capitolo 63
Capitolo 64
Capitolo 65
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo 1

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By wrongperfectly

Sono sul punto di uscire con un giovane DiCaprio, quando un tonfo sordo mi sveglia dalla mia fantasia amorosa seguito da un'imprecazione.

Sobbalzo, poi con uno scatto degno di un felino accendo la abat-jour sul comodino, proprio accanto al letto.
«Tyler, che stai facendo?» domando, stropicciandomi gli occhi, riconoscendo immediatamente la voce di mio fratello.
«Questi pupazzetti sono un'arma mortale», commenta sarcastico, afferrando uno degli oggetti in questione, ancora steso con la faccia sul pavimento. «Non riesco a dormire nella mia stanza, il letto è davvero scomodo...» mormora grattandosi la testa imbarazzato, una volta rialzatosi in posizione eretta. Gli scocco un'occhiata e fingo di credere alla sua scusa. Per un momento, sotto quella facciata da duro, rivedo il mio adorato fratellino, lo stesso che si rifugiava nel mio letto per sentirsi più al sicuro ogni qualvolta udivamo grida e vetri in frantumi echeggiare per l'intera casa, durante quelle che nostro madre definiva "crisi".
«Preferisci restare qui per questa notte?» chiedo al posto suo,facendogli la domanda che non trova il coraggio di farmi, per toglierlo dall'impiccio di ammettere che in fondo, ma proprio in fondo, sente ancora il bisogno della sua sorellona. E la cosa non può che rendermi felice.

Il ragazzo annuisce timidamente, mentre io mi sposto per fargli spazio tra le coperte, sotto le quali si fionda in un baleno. Lui è il doppio di me e stiamo un po' stretti nel mio letto ad una piazza e mezzo, ma questo adesso non mi importa.

«Cassie», sussurra, dopo essersi sistemato.
«Sì?» mi limito a dire per fargli capire che gli sto prestando attenzione, nonostante sia rannicchiata in modo da dargli le spalle.
«Credi che le cose andranno meglio d'ora in poi?» domanda timoroso, spiazzandomi.

E' la stessa domanda che mi pongo io da prima di salire sull'aereo che ci ha condotti qui; vorrei potergli rispondere di sì, di non preoccuparsi, perché in ogni caso avremmo sempre l'un l'altra, e dirgli che ce la caveremo, come abbiamo sempre fatto. Mostrarmi forte ai suoi occhi ed essere la sorella maggiore sicura di sé e temeraria che conosce, ma il fatto è che niente di tutto ciò è vero e che sono preoccupata tanto quanto lui.

«Non lo so Ty», mormoro con tutta sincerità, «Lo spero».

Non sentendo alcuna replica da parte sua, decido di voltarmi sul fianco opposto per poterlo guardare nei suoi occhi color caffè, simili ai miei. «Dovresti dargli una possibilità».
Mi osserva aggrottando le sopracciglia. «A chi ti riferisci?».
«Lo sai», e sollevo le sopracciglia, «A nostro padre», spiego per essere più chiara; so bene che serba ancora rancore nei suoi confronti per non essere stato molto presente per noi mentre crescevamo, ma deve capire che non tutto quello che ci è successo è colpa sua e che questa storia appartiene al passato. È tempo di voltare pagina e cominciare un nuovo capitolo della nostra vita. Non dico che sarà facile, no, ma il suo astio di certo non migliorerà la situazione.

Sentendo le mie parole si irrigidisce all'istante, serrando le labbra in una linea priva di qualsiasi espressione e, senza degnarmi di alcuna risposta, si volta dall'altra parte; non mi sarei aspettata una reazione diversa, ma almeno ci ho provato.

«Buonanotte, sorellina», borbotta infine e capisco che questo è il suo modo di troncare la discussione sul nascere.
Sospiro, «Buonanotte, Ty» e detto ciò chiudo gli occhi.

Non mi arrendo, comunque, tenterò di nuovo di scalfire il muro che da tempo si è costruito. Tenterò fino a quando non ci riuscirò.

***

La mattina successiva mi sveglio sentendo un enorme peso sullo stomaco: guardando verso il basso noto che due braccia pesanti mi cingono i fianchi, ma dopo vani tentativi riesco a liberarmi da quella presa, senza, fortunatamente, svegliare mio fratello.

Mi soffermo un attimo ad osservarlo: ha l'aria beata e sembra proprio un bambino, niente a che vedere con l'immagine del sedicenne freddo e rude che vuole dare a vedere. Gli sistemo bene la coperta, così che non finisca per prendere freddo e sgattaiolo al piano inferiore, sperando di trovare qualcosa da mettere sotto i denti, dato che il mio stomaco è solito brontolare per la fame quando mi sveglio e nemmeno oggi fa eccezione.

In fin dei conti la colazione è il pasto più importante della giornata, no?

«Buongiorno principessa», esclama mio padre, solare come non avevo avuto modo di vederlo da tempo, non appena varco la soglia del soggiorno. Mi stropiccio gli occhi lasciandomi andare ad uno sbadiglio, più simile a un ruggito degno del Re Leone che a un verso emesso da una ragazza, ancora mezza addormentata e dolorante a causa del ragazzo di un metro e ottantacinque che mi ha usato come cuscino per tutta la notte.
«Buongiorno...» sobbalzo, per poi bloccarmi sul posto quando, ridestata dal sonno, vedo che non siamo i soli nella stanza: un ragazzo dai capelli scuri e dai penetranti occhi di ghiaccio, -piuttosto attraente, oserei dire- è seduto davanti al bancone e mi sta fissando.
«Cassie, ti ricordi di Aaron? Eravate inseparabili da piccoli», spiega il più anziano facendo le presentazioni del caso, intuendo l'imbarazzo e la confusione che mi attraversano nel ritrovarmi uno sconosciuto in casa di prima mattina.
«Facevamo il bagno insieme», aggiunge il ragazzo sorridendo e mostrando, così, la sua dentatura perfetta. Improvvisamente qualcosa scatta in me e una serie di ricordi si fa spazio nella mia testa insieme all'immagine di un bambino un po' goffo e dalle guance paffute.
Tossisco più volte a disagio. «Ehm, sì...», mormoro mentre la mia mente fa un tuffo nel passato. «Ricordo vagamente», dico tagliando corto e cercando di cacciare via quei pensieri decisamente troppo imbarazzanti. Una cosa è certa: questo ragazzo non assomiglia affatto a quel ragazzino leggermente in sovrappeso con il quale passavo le mie giornate a giocare a nascondino.
«D'accordo, vado a prendere quegli attrezzi per tuo padre, torno subito», dice l'uomo lasciandoci soli, proprio nel momento meno opportuno, ma non senza prima lanciarmi un'occhiata che non riesco a decifrare.

Il silenzio piomba nella stanza, non appena papà si allontana, ed io inizio a giocare con alcune ciocche dei miei capelli per l'imbarazzo, ma poi, d'un tratto, Aaron prende per primo la parola. «Carino il tuo... pigiama?», commenta, inclinando la testa di lato con fare curioso e divertito: solo adesso mi rendo conto di avere indosso un pantaloncino bianco con fantasie floreali e una t-shirt viola abbinata con una stampa al centro che richiama il motivo dei pantaloni. Fantastico.

Promemoria: ricorda sempre di vestirti prima di fare colazione.

Normalmente non sono una ragazza che arrossisce facilmente, ma in questo caso non posso farne a meno. Mi mordo il labbro per la vergogna. «Ehm... Non credevo che ci fossero ospiti, scusa».
Lui sorride, «Cassie, è casa tua, non devi scusarti con me», mi rassicura.

Giusto, è casa mia -nonostante io mi senta solo un'ospite di passaggio-, perciò ho il diritto di mettermi addosso quello che voglio, no? No.

«Allora...», mi schiarisco la voce, dondolandomi sui talloni con le braccia dietro la schiena, «Sei cambiato tanto», affermo sincera. Eccome se lo è: non posso credere che quel bambino di dieci anni con cui ero solita passare i pomeriggi sia diventato l'affascinante giovane uomo che mi trovo ora davanti.

La pubertà ha dato i suoi frutti.

«Anche tu, adesso non porti più gli occhiali», commenta lui riferendosi all'occhio pigro che avevo da piccola.
«No, in effetti la mia vista è migliorata», gli sorrido. Per fortuna, perché odiavo quelle lenti: erano più grandi anche della mia faccia.

Un altro silenzio imbarazzante cade tra di noi. Ho già perso il conto di quanti ce ne siano stati. «Mi dispiace per tua madre», esordisce, poi, probabilmente non sapendo che altro dire.
Ed eccola qui, la frase che mi ripetono sempre. Adesso avrei di gran lunga preferito il silenzio imbarazzante.
Nella mia breve vita ho imparato che spesso le persone lo dicono solo per dovere, più difficilmente perché lo pensano davvero; in ambedue i casi detesto essere compatita come un cucciolo smarrito a causa di quella donna. Anche se Aaron mi sembra sincero, io comunque sto bene e non ho bisogno del suo dispiacere, né di quello di nessun altro.
Abbasso lo sguardo sui miei piedi, «Sì, anche a me...».
«Ma vedrai, adesso che sei qui le cose prenderanno una piega diversa, in meglio, ovviamente», dice, tentando di confortarmi; altra cosa di cui non ho bisogno.
Mi viene automatico roteare gli occhi a quella sua affermazione. «Già, è quello che dicono tutti», commento, senza rendermi subito conto dell'acidità del mio tono di voce, che mette visibilmente a disagio Aaron. Mi pento subito non di cosa ho detto ma del modo in cui l'ho fatto; non devo trattarlo in questa maniera, in fin dei conti non ha alcuna colpa e non ha senso prendersela con lui; cerca solo di essere educato, mentre io mi sto mostrando fin troppo ineducata e scontrosa.

«Scusa...», mormoro mortificata.
Il moro annuisce comprensivo, fortunatamente pare capire di aver toccato un nervo scoperto. «Frequenterai la nostra scuola, giusto?» chiede poi, cambiando discorso con mio sommo piacere ed in risposta gli faccio un cenno con la testa.
«Beh, spero che avremo qualche corso in comune. In ogni caso, puoi contare su di me per qualsiasi cosa», le sue parole mi lasciano spiazzata; sembra davvero sincero ed io non posso che restare stupita dai suoi modi così gentili e premurosi. Non sono più abituata a questo, alla gentilezza.
«Aaron, nemmeno mi conosci», osservo arricciando il naso e piegando la testa da un lato, perplessa.
«Questo non è vero, ti conosco da quando sei nata», mi corregge lui.
Scuoto la testa. «Non sono più la ragazzina quattrocchi di otto anni fa», lo avverto; più che altro non vorrei restasse deluso dalla persona che si trova di fronte: quella bambina dall'aria timida ed innocente è morta nel momento in cui sono giunta a New York, dove ho vissuto fino ad una settimana fa.
«E io non sono più il bambino sovrappeso di otto anni fa», ridacchia. Beh, no, certo che non lo è, penso e realizzo che forse, in fin dei conti, non ha tutti i torti.   
«Giusto», mi trovo a concordare.
«È evidente che siamo cambiati, com'è giusto che sia, questo però non significa che non possiamo essere amici come un tempo, no?» domanda. Il suo ragionamento non fa una piega, avere un amico di certo non mi dispiacerebbe, anche se non sono sicura di ricordare come si faccia, ad essere amica di qualcuno e sono sul punto di rispondergli, quando una terza voce fa capolinea nella stanza.

«Eccoli qui!» esclama mio padre tenendo in mano quelli che mi sembrano attrezzi per l'edilizia. Appena in tempo.
Aaron prende gli oggetti che gli pone, «Grazie mille, Signor Anderson», dice gentilmente rivolgendogli un sorriso a trentadue denti.
Il più anziano gli dà un'amichevole pacca sulla spalla, «Oh, chiamami Rob, ragazzo, non sono ancora così vecchio», commenta, poi, scherzosamente.
«Assolutamente no signor... Rob», si corregge non appena riceve un'occhiata ammonitrice dall'uomo di fronte a lui, «Beh, ora è meglio che vada, ho promesso a mio padre che lo avrei aiutato con la casa sull'albero».

Immediatamente una scintilla si accende in me nel sentirlo riferirsi a quella casa. «Ci andavamo sempre da bambini», penso ad alta voce, senza che me ne accorga immediatamente; è una cosa che mi capita spesso, soprattutto quando mi ritrovo a rammentare un momento che per me è stato bello. E, sfortunatamente, la mia vita fino ad ora non è stata colma di momenti belli.

Aaron, intento già a dirigersi verso l'ingresso, si volta verso di me; una piccola luce attraversa i suoi occhi blu; probabilmente anche lui per un istante si è perso in quel mare di ricordi, «Già, adesso è arrivato il momento di passare il testimone a Thommy, ma prima ha bisogno di una sistemata», spiega. Il piccolo Thommy; l'ultima volta che l'ho visto aveva appena due denti, come passa il tempo! Chissà se assomiglia almeno un po' al suo fratello maggiore. Se così fosse sarei certa che tra qualche anno diventerebbe davvero un bel ragazzo.
«Ti accompagno alla porta», propongo, non so neppure perché, facendogli strada lungo il breve tragitto.

«Mi ha fatto piacere vederti di nuovo», mi dice, una volta giunto sul ciglio.
«Sì, anche a me, Aaron», ammetto arrossendo, di nuovo, leggermente.
Lui si gratta la nuca; sembra che non sia l'unica a disagio tra i due e le cosa un po' mi rincuora. «Allora...», si schiarisce la gola, «Ci vediamo in giro».
«Ehm, certo», dico semplicemente.
«Comunque, bentornata a casa, Cassie», sorrido alle sue parole, ringraziandolo prima di chiudere la porta; è bello sentirselo dire, anche se non riesco più a pensare a questo posto, a questa città, come a casa mia.

Quando torno in cucina, mio padre è intento ad osservarmi con uno sguardo strano ed un sorriso altrettanto strano sul volto. «Mi è sembrato di notare una certa sintonia tra te e Aaron».
«Papà, non dirai sul serio, vero?» esclamo mettendomi seduta sullo sgabello e poggiando i gomiti sopra l'isola in mezzo alla stanza, guardandolo torva.
«È un bravo ragazzo», aggiunge semplicemente, so dove vuole arrivare a parare e non voglio che lo faccia.
«È praticamente uno sconosciuto», controbatto io in mia difesa.
L'uomo smette immediatamente di fare qualsiasi cosa stia tentando di fare ai fornelli -di certo non si può definire "cucinare" e si acciglia, «C'è per caso qualche altro ragazzo di cui dovrei conoscere l'esistenza a New York?» domanda con fare sospettoso. Mio Dio, non vorrà davvero parlare della mia inesistente vita sentimentale adesso?
«Cosa? No! Certo che no», mi affretto a rispondere, mentre un Tyler poco reattivo trascina il suo corpo all'interno della cucina sedendosi svogliatamente sullo sgabello accanto a me.

«Ehi, buongiorno bello addormentato. La colazione è quasi pronta», gli comunica nostro padre con fare derisorio ricevendo in risposta solo un grugnito; non sapevo di essere la sorella di un suino.

Nel giro di un paio di minuti i nostri piatti vengono riempiti da cibi non del tutto identificabili. Improvvisamente, mi ritrovo a non avere più fame, strano ma vero.
«Sarebbe questa la colazione?» chiede Tyler disgustato.
Deglutisco; nemmeno l'odore è dei migliori. Mi chiedo come papà sia potuto sopravvivere otto anni da solo in queste condizioni, senza imparare a fare delle uova strapazzate.
Allontano il piatto da me, sforzandomi di sorridere. «Sai, visto che adesso abitiamo insieme, credo sarebbe giusto se noi tre ci dividessimo i compiti: io potrei cucinare, Ty potrebbe lavare i piatti e tu fare... Beh, qualcos'altro», propongo tentando di essere il più gentile possibile per non urtare i suoi sentimenti.
«Idea geniale sorellina, però che ne dici se tu lavi i piatti ed io non faccio proprio un bel niente?» Ignoro la proposta di mio fratello, il quale non mi sta aiutando per niente con le sue battute.
Il più anziano si acciglia, «È il vostro modo per dirmi che la mia cucina fa schifo?»
«No, non ci permetteremmo mai», diciamo all'unisono, alzando le mani con finta innocenza: la verità è che le sue doti culinarie raggiungono picchi elevatissimi, sotto lo zero, però.
«Bene, perché per essere un padre single non me la cavo così male», commenta l'uomo, forse cercando di convincere più se stesso che noi.
Tyler ed io ci mandiamo un'occhiata al volo e che non passa certo inosservata a nostro padre che ce ne rivolge una, a sua volta, molto minacciosa prima di rivolgere le sue pupille all'orologio fisso sul muro. «Potrete ricordarmi che pessimo cuoco sono questa sera, adesso devo andare», dice prendendo la giacca della divisa.
«Di già? Non resti a fare colazione con noi?» domando io, trovandomi fin troppo patetica da sola.
«Non vedo di cosa ti stupisci», borbotta il moro accanto a me.
Papà serra la mascella, cercando di controllare il suo istinto irrefrenabile di rispondere alla provocazione di Tyler. «Mi piacerebbe molto, ma il crimine non aspetta la colazione, piccola», afferma, infine, guardandomi coi suoi occhi blu, così diversi dai miei e da quelli di mio fratello.

È triste da dire, ma fisicamente, né io né Tyler gli assomigliamo; noi siamo l'esatta fotocopia di nostra madre e lo detesto, detesto avere qualcosa in comune con lei, seppur si tratti solo di caratteristiche fisiche. Mi chiedo se, ogni volta che ci guarda, in realtà non veda il volto della donna che un tempo amava e che lo ha abbandonato.

Scuoto la testa al pensiero. «Già, hai ragione», mormoro, infine, concordando con lui: è un poliziotto e la sicurezza della città viene prima di tutto, non posso certo pretendere che assecondi me e le mie sciocchezze, che razza di figlia sarei se lo facessi?
«Ci vediamo stasera», dice dopo avermi lasciato un tenero bacio sui capelli provando a fare la stessa cosa col ragazzo che, però, si sposta disgustato. «Non distruggetemi la casa. Ehi, mi riferisco soprattutto a te, signorino», lo intima con un tono tra il minaccioso e lo scherzoso puntandogli un dito contro, varcando successivamente la soglia della porta e lasciandoci soli ancora una volta.


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