Capitolo trentuno

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 Capitolo trentuno

  

Svizzera, settembre 1941.

Mentre piallava la seduta di una panca che lui e Herr Schröder avrebbero dovuto costruire, Friedrich non faceva altro che sorridere e pensare a Katharina che, inginocchiata in giardino vicino al fiume, aiutava quella che era diventata la sua suocera e madre adottiva nel fare il bucato.

Aveva notato la determinazione con cui lei si applicava alle faccende domestiche o al lavoro di lavandaia che non aveva potuto far altro se non accettare. Se pensava a come era stata terrorizzata, all'inizio, di sbagliare qualcosa... «A casa mia non facevo mai nulla» gli aveva sussurrato una delle prime sere, prima di addormentarsi. «Come potrò non combinare problemi davanti a questi due estranei? E se dovessero cacciarci via per questo?»

Erano a casa Schröder da poco più di un mese, ma credeva di parlare per entrambi quando pensava a quanto velocemente si fosse affezionato a loro. Alina e Jakob erano una coppia anziana, che molto probabilmente aveva avuto il primo figlio troppo tardi per permettersi anche un secondo. Lavoravano duro ogni giorno e si dimostravano più che disponibili a sacrificare la cena di uno dei due per darla a Katharina quando le voglie si facevano intense e a condividere quella rimasta.

Non capiva perché non si comportassero come gli altri abitanti di quel paesino di montagna. Non appena avevano scoperto che sua moglie era tedesca – dopo aver rigorosamente creduto alla bugia che era stata imbastita per loro – non si erano rivelati essere molto ospitali. Ricordava ancora quella volta in cui Alina l'aveva mandata al mercato per fare compere ed era tornata a casa in lacrime, con il cesto vuoto, farfugliando, dicendo che non avrebbero venduto nulla ad una nazista. Friedrich era stato costretto a scendere al mercato con lei e a cercare di sistemare la questione, combinando ben poco. Si era ripetuto tutto nello stesso modo, la volta successiva, e lei si era ritrovata a rinunciare, scusandosi con la signora Schröder, ma «Non voglio sentirmi chiamare "sporca nazista" una seconda volta.»

La Svizzera era rimasta un Paese neutrale fino a quel momento e, essendo tale, non riusciva a capire l'astio nei confronti di una ragazza diciottenne e per di più in attesa di un bambino. Aveva cercato di non pensarci, ma non riusciva a reputarsi fortunato quando tutte le persone che lo avevano visto una volta superato il confine lo credevano svizzero. Certo, era "tornato" – e alle pettegole del villaggio, che si riunivano ogni pomeriggio alla fontana e che sembravano non avere nulla da fare, importava solo quello.

Si chiedeva spesso come stessero suo padre e la famiglia di Katharina, ancora a Berlino, e se lo domandò anche quella volta, mentre raddrizzava la schiena e si asciugava con il dorso della mano il sudore che gli imperlava la fronte.

«Friedrich?» Capì subito che era stata sua moglie a parlare: quell'accenno a "Boris", il nome che ormai aveva dovuto abbandonare, non era ancora riuscito a scomparire e d'altronde nemmeno lui si era ancora abituato molto a chiamarla con il suo nuovo nome.

Quando si girò a guardarla, lei era proprio lì, a qualche metro di distanza, con un fazzoletto che le allontanava i capelli biondi dalla fronte e gli sorrideva. Teneva in mano una vecchia tazza con una parte del bordo sbeccata e gliela porgeva.

«Grazie» rispose lui, prendendole la tazza dalle mani e bevendo in un lungo, unico sorso l'acqua che vi era contenuta, sospirando contento una volta finito. La appoggiò sull'asse di legno alle sue spalle e prese per mano Katharina. La avvicinò a sé per sollevarla e la fece sedere accanto alla tazza. «Allora, mamma?» rise, sapendo che l'avrebbe rimproverato per averla chiamata in quel modo.

«Smettila!» rise a sua volta. «Lasciami godere gli ultimi mesi da adolescente, bitte*. Poi potrai chiamarmi in qualsiasi modo vorrai.»

L'amore ai tempi della guerraOnde histórias criam vida. Descubra agora