Capitolo quattordici

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Capitolo quattordici

 

Berlino, dicembre 1940.

Questa volta fu Katrhin ad aiutare Anna a cambiarsi e indossare la camicia da notte. La ragazza si era lamentata, dicendo che ci sarebbe riuscita anche da sola, ma mentalmente aveva ringraziato la cameriera.

Le sue mani, avvolte in strette bende bianche, le facevano ancora male e le sembrava un'impresa impossibile muovere le dita senza sentire fitte lancinanti propagarsi per tutta la lunghezza delle braccia.

Per una volta, lasciare che qualcun altro le spazzolasse i capelli fece sì che tutta la tensione che aveva accumulato quella sera la abbandonasse piano piano, che se ne andasse ad ogni colpo di spazzola di più.

Anna rimase seduta davanti al tavolo da toeletta, fissando la se stessa riflessa sullo specchio. Katrhin non era riuscita a convincerla ad andare a letto. Si era arresa e aveva lasciato la stanza in silenzio, chiudendosi piano la porta alle spalle.

Come poteva averle parlato così, Wilhelm? Come poteva pensare davvero quelle cose? Non riusciva ancora a capacitarsi delle sue parole, scritte nero su bianco in quella lettera.

Portò le mani in grembo e abbassò lo sguardo su di loro. Pensava alla musica. Pensava al saggio di Natale. Pensava a quanto ci sarebbe rimasto male il professor Schwarz. Pensava a quanto doveva essere furioso suo padre.

Sospirò, alzando lo sguardo sulla se stessa dall'altra parte dello specchio. Stentava a credere che quella ragazza distrutta, con gli occhi cerchiati di rosso a causa del pianto, fosse davvero lei, Anna Schmidt. La stessa ragazza che rideva ogni giorno con la sua migliore amica Juliane, che fantasticava sul suo futuro da pianista, al fianco di Wilhelm Neumann. Forse Juliane aveva ragione, in qualche modo: quel ragazzo aveva finito comunque per ferirla.

Sospirò di nuovo, alzandosi lentamente, sentendo la stanchezza in ogni fibra del suo corpo. Il giorno dopo sarebbe stato il sabato più lungo della sua vita e lei non era pronta – e non voleva nemmeno esserlo – a quello che sarebbe potuto succedere.

Si girò e chiuse di scatto gli occhi non appena il pianoforte entrò nella sua visuale. Non era pronta a vedere nemmeno quello. Sentiva già le lacrime pungerle gli occhi e la gola aveva già iniziato a seccarsi, mentre nella sua mente si affollavano tutti i ricordi di quando aveva iniziato a suonare quello strumento per la prima volta.

Dei colpi alla porta la distrassero, sollevandola dal pianto che, lo sentiva, stava per arrivare. Si girò verso la porta e disse un "avanti", la voce che le tremava e graffiava la gola, che portava ancora i segni del pianto.

Si aspettava di vedere entrare suo padre, che, da quando aveva salutato il dottor Schulze prima che se ne andasse, non le aveva più parlato. Si aspettava di vedere entrare suo fratello Adam, pronto a riferire le parole di suo padre o a rimproverarla per ciò che si era fatta, magari accompagnando il tutto con uno schiaffo. Si era immaginata anche sua madre, che, presa da compassione, era venuta a consolarla e cullarla come non aveva fatto mai.

Ma la persona che entrò dalla porta aveva folti capelli biondo scuro e spalle larghe e muscolose. Boris.

Avrebbe tanto voluto sospirare dal sollievo, ma si trattenne.

Furono le sue gambe a cedere e a piegarsi sotto il suo peso. Il ragazzo corse in avanti e la afferrò prima che le sue ginocchia toccassero terra.

«Tutto bene?» chiese preoccupato.

Anna annuì. Aprire la bocca per parlare avrebbe comportato lo scoppiare a piangere di nuovo. Piangere per il dolore che sentiva, per l'umiliazione subita in salotto, per lo stress di quel giorno, per la rabbia causata dalle parole – ingiuste – di Wilhelm. Piangere perché era stata una stupida, una stupida che non era stata sincera con il ragazzo che amava.

L'amore ai tempi della guerraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora