Capitolo quindici

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Capitolo quindici

 

Berlino, dicembre 1940.

Wilhelm fece salire la ragazza sui sedili posteriori della sua auto e le si sedette accanto, chiudendo la portiera.

Ricordava solo che la ragazza gli aveva pagato un altro paio di birre – o forse erano di più? – e poi null'altro.

Gli sembrava ci fosse un pensiero nella sua mente, ma sembrava così offuscato che non era in grado di vederlo chiaramente.

Scosse la testa, cercando di fermare quell'abitacolo che continuava a vorticargli attorno.

Sentiva le mani di quella sconosciuta sulla sua camicia, le sue dita che ne slacciavano i bottoni. Sentiva le labbra di lei premere sulle sue, le sue ginocchia stringergli i fianchi in una morsa di ferro.

Le strinse la vita con un braccio, sollevandole la gonna con la mano libera.

Sapeva che quella ragazza stava parlando, ma non riusciva a concentrarsi appieno sulle sue parole. Quel pensiero era ancora lì, insistente, che gli bucava la mente come un tarlo.

Più cercava di avvicinarsi e afferrarlo, più quello si allontanava dalla sua presa. Era frustrante.

Wilhelm era semi cosciente delle labbra di quella sconosciuta dall'abito attillato sul suo collo.

Fu quando le mani di lei si spostarono sulla sua cintura che quel pensiero si fece chiaro.

Nella sua mente vide un paio di occhi azzurri, capelli biondi legati in una crocchia sulla nuca, un sorriso tenero, una spruzzata di lentiggini chiare sul suo naso.

«Anna» sussurrò, staccandosi di scatto la ragazza di dosso.

«Scusa?» chiese quella, guardandolo confusa.

«Scendi» le disse brusco Wilhelm, riallacciandosi la camicia con mani tremanti.

«Come, scusa?» il boa di piume le penzolava da una spalla, dandole un'aria quasi comica. I suoi occhi erano incendiati dalla rabbia che provava in quel momento, nell'essere respinta dopo aver pagato da bere a quel ragazzo per tutta la serata.

«Ho detto scendi» Wilhelm aprì la portiera al suo fianco.

La ragazza lo fissò per qualche minuto, la rabbia che le incendiava gli occhi. Si sistemò la spallina del vestito che le era scivolata dalla spalla, si avvolse il boa attorno al collo, prese il cappotto dal sedile e scese stizzita.

Rimase immobile sul marciapiede. Guardò Wilhelm scendere dall'auto, salire dal lato dell'autista e mettere in moto.

Il ragazzo si passò una mano sugli occhi, sospirando. Quando li riaprì, scoprì che stava ricominciando a nevicare. Di nuovo. Premette il piede sull'acceleratore mentre nella sua mente continuavano a vorticargli immagini di Anna.

Passò lentamente davanti alla casa della ragazza, cercando di togliersi di dosso quel senso di colpa che si era impossessato di lui. Senso di colpa per ciò che le aveva scritto, per quello che aveva e non aveva fatto con quella sconosciuta – ormai, con tutto quell'alcol ad offuscargli la mente, non era più sicuro di niente. Senso di colpa per aver abbandonato Anna in quel modo.

Le luci al piano terra erano accese. Si immaginò Anna in soggiorno, costretta a rimanere seduta accanto a quel Boris mentre suo padre la fissava. E si maledì. Si maledì per la milionesima volta per avere dato retta al suo orgoglio.

Quella sera, dopo aver barcollato salendo le scale e aperto la porta d'ingresso, il suo appartamento gli apparve più freddo del solito. Mark, il soldato con cui divideva l'alloggio, doveva aver finito l'acqua calda perché la doccia non fece altro che sputare spruzzi gelidi.

L'amore ai tempi della guerraWhere stories live. Discover now