§ 19. Canto celtico

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Cédric interruppe la chiamata sul cellulare, ormai stanco di rassicurare Vasily sul proprio stato di salute. Quando gli aveva comunicato il fallimento del tentativo con il violino, il giorno prima, era stata palpabile la sua preoccupazione, nonostante avesse cercato di mantenere un contegno dignitoso e avesse impiegato tutto il proprio autocontrollo per non lasciar trasparire la delusione che dentro lo attanagliava.

Infine aveva chiesto di poter parlare con Jeremy, ma quello, al momento, si trovava impegnato a caricare l'auto coi pochi bagagli che si sarebbero portati dietro. E non aveva potuto sentirlo neanche adesso, visto che lo aveva mandato a far spesa. Si erano lasciati con un cipiglio malinconico e la promessa di risentirsi non appena avessero messo piede su suolo irlandese, la mattina successiva.

Abbassò gli occhi sulle sue mani piene di fasciature, ma ancora intatte. Quindi li risollevò sul violino ben richiuso nella custodia, appoggiato sopra la scrivania della sua camera, accanto ai libri dell'università.

— Razza di bestia immonda! — iniziò a parlargli. — Che cosa vorrai farmi, quando tornerò a trovarti? Vuoi staccarmi tutte le dita e ridurmi a un rogo umano? Accòmodati! E TU, MALEDETTO... — gridò poi, all'aria tutt'intorno, — PRESENTATI A ME, SE HAI IL CORAGGIO! VIENI A PARLARE CON ME, SONO QUI AD ATTENDERTI! NON HO PAURA DI TE!

Ovviamente nessuno rispose, neppure il sibilo del vento attraverso gli scuri.

Non rimaneva che fare la valigia.

* * *

Reese Ravens sembrava più giovane di come Cédric lo aveva immaginato; non doveva avere più di trent'anni. Alto e piuttosto atletico, con un volto dai lineamenti regolari, corti capelli castano chiaro e occhi verdi, rispecchiava il tipico irlandese. Per non parlare di sua moglie, le cui sembianze elfiche erano ancora più sconcertanti. Orecchie a punta a parte, pareva proprio una Cate Blanchett dai capelli rossi. E non aveva la più pallida idea di essere proprietaria di un'arpa dai poteri malefici, perché Reese non aveva trovato la capacità di rivelare a chicchessia una verità a tal punto sconcertante. Lui stesso aveva stentato a crederci, non fosse rimasto basito di fronte alla rigenerazione spontanea della corda, dopo la prima resezione delle tante che aveva dovuto ripetere in seguito.

In quel momento si trovavano più o meno a metà del processo e Anya già si sentiva inquieta, smaniosa di suonare, ma, ogniqualvolta entrasse nello studio per esercitarsi, finiva per addormentarsi anche sul pavimento nudo e si risvegliava soltanto dopo che qualcuno l'aveva trascinata fuori.

— Non sapete quanto vi sia grato, perché la situazione è diventata insostenibile! — ripeté il giovane in inglese, offrendosi di trasportare su per le scale il trolley di Cédric, che altrimenti sarebbe spettato a Jeremy. Intanto li scortava nelle stanze che aveva riservato loro, in quell'immensa fattoria dove vivevano lui, sua moglie, sua figlia Lynn e il padre di Anya che, abbandonato dalla moglie dieci anni prima, aveva sposato in seconde nozze la madre di Reese.

La tenuta era straordinaria e la casa gigantesca, immersa tra prati verdeggianti e fresca di ristrutturazione, con tanto di stalle e fienile sul retro. Non mancava di alcun arredo obbligatorio per un'abitazione rustica, compresa una zona taverna, dabbasso, con angolo bar, cantina scelta e un tavolo da biliardo. Il primo piano era dominato da una cucina padronale e un salone, regno indiscusso di tre gatti rossi, due maculati e un Cocker Spaniel. Ai piani superiori: cinque o sei camere da letto, tre bagni e un solarium a cielo aperto. Una specie di albergo, insomma.

A metà del corridoio superiore, da una delle stanze fuoriuscì una bimba dai ricci ramati con in braccio l'ennesimo micio, un cucciolo. Tutta dolcezze e delicatezze si rivolse al padre con parole di cui né lui né Jeremy furono in grado di cogliere il significato.

Le corde d'oroWhere stories live. Discover now