§ 25. Requiem

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Non appena si rese conto di essere vivo, la prima cosa che Cédric desiderò fu essere morto.

Continuò a desiderarlo per un abbondante paio d'ore anche dopo aver riacquistato consapevolezza della situazione, sulla base di ciò che gli era stato permesso chiedere e riferito. La morfina che gli veniva sparata a fiumi nelle vene poteva anche intontirlo, ma non riusciva a sedare il dolore dell'anima.

Sapere che era stato l'artefice indiretto della morte di un altro essere umano provocava dolore. Avere la certezza, pur non confermata dai medici, che le sue mani avvolte dall'ingessatura fossero fuori gioco per sempre provocava dolore. Ricordare l'orrore che aveva provato durante quegli ultimi minuti, dilatati alla stregua di un'eternità, e nonostante avesse portato a compimento quanto prefissato, lo faceva sentire come qualcuno che avesse subìto la più oltraggiosa delle violenze.

Oltre a tutto questo, le sue orecchie erano ancora perseguitate da quel rumore. Quando un medico che conosceva il francese si era avvicinato per parlargli, aveva percepito a malapena le sue cordiali e diplomatiche parole. Non aveva osato domandare alcuna precisazione sul proprio stato di salute fisica, né sulle condizioni in cui era stato ritrovato o su ciò che lo attendesse, in un prossimo futuro, dal punto di vista emotivo, familiare o legale. Era quasi scontato che, a breve, la polizia avrebbe voluto interrogarlo.

Frattanto acconsentì a incontrare i propri genitori, uniche persone alle quali era stato concesso di entrare nella stanza. Sembrava che, non appena avevano saputo la notizia del suo "incidente", tutti i suoi familiari si fossero precipitati a Praga con il primo volo; persino suo padre che era sempre oberato di lavoro. Sarebbe stato impossibile prescindere da un confronto con loro, quindi tanto valeva togliersi il dente prima possibile.

Al contrario di quanto si era aspettato, furono molto discreti e persino affettuosi. Come c'era d'aspettarsi, suo padre provò a domandare le ragioni della sua trasferta praghese e Cédric si sforzò per distinguere le sue parole dal fracasso che, pur scemando poco a poco, rimbombava ancora nella sua testa.

Bofonchiò una risposta farraginosa e poco comprensibile sul fatto che avesse dato seguito a un'idea estemporanea, una specie di molla nel cervello che gli aveva prospettato l'idea di commettere una trasgressione che, sul momento, era sembrata alquanto eccitante.

— Era per quel ragazzo? Il violinista? — azzardò sua madre.

— Vasily, certo. Vasily è stato qui? È qui adesso?

— Non adesso. Ma è venuto ogni giorno per sapere come stavi. Era molto preoccupato, — confermò il padre.

— Dovevi vedere che faccia aveva! Era distrutto... afflitto!

— Posso ben crederlo, — mormorò lui, a fior di labbra.

— Ma perché, Dric, ti trovavi a casa sua a suonare? — insistette François. — Chi c'era insieme a te? Ti ricordi qualcosa?

Cédric si riservò qualche secondo di riflessione, benché fin da subito si aspettasse quella domanda. Provò a prenderla alla larga: — Ho tutto nebuloso, in testa. Non ricordo bene. A voi cosa è stato raccontato?

— Niente di niente!

— Una storia non chiara, — provò a spiegare Jeanette. — Lui non è riuscito a esprimersi.

— Ha balbettato in perfetto francese, riguardo a un suo fratello che voleva commettere una sciocchezza. O forse era lui...

— Sì, — confermò Cédric. — Ero preoccupato per lui, quindi sono andato a casa sua.

— Da solo? Perché alcuni dicono di averti visto insieme a un certo insegnante di pianoforte di nome Lightner, quando sei andato lì. Però poi, quando ti hanno ritrovato, eri da solo.

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