§ 14. Il racconto di Aslan

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L'atmosfera era accogliente e tranquilla, a metà mattina. Il locale non era affollato dalla ressa di clienti serali e la musica tenue avrebbe permesso loro di discutere senza interferenze.

Jeremy li attendeva presso uno dei tavoli di legno accanto alla grande vetrata che illuminava la sala. Inserito tra i mille oggetti quotidiani e prosaici che lo circondavano, non trasmetteva l'idea di alcunché di sovrannaturale. Sembrava lo stesso che Vasily aveva imparato a conoscere, la stessa espressione riflessiva e colpevole che aveva già spesso indugiato sulla dolcezza dei suoi tratti.

Quando lo raggiunsero con passi automatici, imponendo al cervello di dare impulso alle gambe che, fosse stato per loro, non si sarebbero mosse di un millimetro, si levò in piedi per accoglierli e stringere la mano di Cédric, che lo incontrava per la prima volta. Il giovane lo salutò con un semplice "piacere", osservandolo con un misto di sgomento e fascinazione.

Vasily, invece, non riusciva a sollevare lo sguardo direttamente su di lui, col rischio di incontrare i suoi occhi. Non ancora, almeno.

Si accomodarono tutti e tre sulle sedie di vimini, i due ragazzi l'uno di fianco all'altro, di spalle al bancone; Jeremy di fronte a loro. Attese che si avvicinasse un cameriere per ordinare tre café au lait, nonostante nessuno desiderasse gradirne. Quindi iniziò a parlare.

— "Riceverai un dono per ciascuno: la vista per l'arpa, le lingue per il pianoforte e la giovinezza per il violino." Così mi disse. E, data la singolarità di ciò che mi era successo, decisi di scrivere tutto per non dimenticarlo. Lo feci in una lingua che non fosse immediatamente comprensibile, ma abbastanza avanzata da permettermi di esprimere con chiarezza i concetti che si estendevano nella mia mente.

«Sul momento non credetti alle sue parole. Mi piacque pensare che, con l'avanzare dell'età, mutamenti fisionomici o predisposizioni latenti si fossero rivelati in me. Ma erano bastati pochi giorni perché mi accorgessi di vederci bene, nonostante la mia vista fosse stata da sempre sfocata, prima di allora. Camminavo per strada e riuscivo a comprendere il discorso dei due rabbini che, davanti a me, ragionavano in ebraico sulla natura di Dio.

«Da quel giorno, per molto tempo, tutto andò a gonfie vele. Non tornò mai nessuno a reclamare malfunzionamenti negli strumenti che avevo riparato o venduto – come avrebbero potuto? E io persi del tutto ogni traccia di quelli. Portai avanti la mia vita come chiunque altro, soprattutto adesso che gli affari funzionavano e la mia famiglia godeva di una rinnovata salute in qualsivoglia ambito. Naturalmente non potevo sospettare. Neppure possedevo la fantasia sufficiente per farlo.»

Ammutolì quando il cameriere tornò, disponendo con rapida efficienza le ordinazioni di fronte a loro, per poi togliere di nuovo il disturbo.

— Quando Parigi fu colpita dai bombardamenti, durante la Prima Guerra Mondiale, il mio negozio rimase intatto e solo marginalmente subì gli effetti della depressione economica.

«Me la spassai per diversi anni. Era la Parigi delle feste nei grandi salon aristocratici, degli spettacoli di cabaret, del Moulin Rouge e di Mata Hari. Era la Parigi dell'arte, in cui avresti potuto incontrare pittori come Matisse o Picasso a passeggio nei grandi boulevard, ballerini come Nijinski o scrittori come Marcel Proust o André Gide allo stesso tavolo di un café. Avresti potuto fare conversazione, nei foyer dei teatri, con musicisti come Stravinsky, Ravel o Fauré, o Puccini... o Debussy. Era il centro del mondo, come Roma all'apice del suo impero.

«Non saprò mai se tanta opulenza facesse ancora parte della mia ricompensa per aver funto da strumento inconsapevole di un disegno di più ampio respiro. Fatto sta che provai ogni lusso avessi in potere di concedermi, dai piaceri dell'arte a quelli della carne. Continuai a coltivare l'amore per il pianoforte, anche se non realizzai mai il sogno della mia giovinezza. Fin quando la vita non iniziò a rendere il conto.

Le corde d'oroWhere stories live. Discover now