Capitolo 7. Il coboldo - Parte Terza

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«Volete scherzare? Perché dovremmo aiutarli? Quel drago voleva ucciderci!» sbottò Galatea, appena Jord e Jake spiegarono le loro intenzioni.

«Sono d'accordo con Galatea, non dobbiamo niente a quel coboldo e alla sua tribù; non avremmo mai ucciso il drago, se loro non avessero deciso di dargli in pasto il bambino».

Sorpresa dall'appoggio di Daniel, l'elfa si lasciò scappare un sorriso nella sua direzione, prima di rivolgersi nuovamente ai due uomini. «Esattamente, non avrei saputo dire meglio. È solo colpa loro se il drago è morto. Che risolvano da soli il problema dei goblin, a me non interessa.» La freddezza con la quale pronunciò le ultime parole sorprese gli avventurieri riuniti intorno a Jake e Jord per ascoltare la loro proposta: avevano intuito tutti che l'elfa non fosse una persona molto disponibile, ma ancora non avevano realizzato fino a che punto si spingesse la sua insofferenza.

Indignato dall'egoismo di Galatea, Jord le si parò davanti. «Spero che tu stia scherzando. Non hai un minimo di sensibilità? Stiamo parlando di un'intera tribù che potrebbe venire sterminata!»

«Stiamo parlando di coboldi! Chi potrebbe sentire la loro mancanza?» rispose lei con leggerezza. Negli occhi di Jord passò un lampo d'ira, che convinse tutti a farsi da parte, rimanendo semplici spettatori di quella battaglia verbale.

«Non so dove sei cresciuta, ma da dove vengo io quando si commette un errore si rimedia. Noi abbiamo ucciso quel drago, e non importa se lo abbiamo fatto per una buona ragione, abbiamo comunque arrecato un danno a qualcuno. Ogni azione ha delle conseguenze e bisogna essere disposti ad accettarle» continuò il chierico infervorato. «Il minimo che possiamo fare è andare a parlare con loro».

«Per dirgli cosa? Che il loro cucciolo è morto? Può tranquillamente pensarci quel coboldo. È stupido, ma confido che almeno questo gli riesca.»

Jord la fissò, in cerca di segni di sarcasmo. Non ne trovò. Pareva sinceramente convinta della sua ultima affermazione. Sbuffò rumorosamente, anche se sapeva che la rabbia che lo stava attanagliando non s'addiceva al suo ruolo. Pazienza e comprensione erano parte integrante della sua educazione, come anche l'accettazione della libertà di pensiero. Ma in quel momento, tutti i suoi principi sembravano cedere davanti alle opinioni dell'elfa: odiava l'egoismo che filtrava dalle sue parole e non poteva in alcun modo soprassedere.

«Come puoi essere così indifferente? Nessuno ti ha insegnato la pietà? Noi siamo gli unici che possono difendere quella tribù. Senza di noi moriranno.» Mentre parlava, Jord si voltò verso Jake, in cerca di un appoggio. Lo trovò in Ben, che fino a quel momento era rimasto leggermente in disparte, a lottare con i ricordi che la vista del bambino aveva riportato alla luce.

«Jord ha ragione, Galatea. Non ci costa niente andare a parlare con loro. Magari c'è un modo di aiutarli. Un modo semplice, che non prenderà molto tempo, ma che ci farà uscire di qui con la coscienza pulita» mormorò il guerriero, allontanando dalla mente il vociare allegro della sua famiglia, riunita intorno alla tavola imbandita.

«O con le tasche più piene» aggiunse CJ. Tutti lo fissarono, interdetti. «Come, ci ho pensato solo io, fratelli?» continuò lui con un sorriso. «Come ha detto Jord, questa fortezza è appartenuta a qualcuno di molto importante. Magari questo qualcuno ha dimenticato qualche oggetto qui sotto...»

«E magari i coboldi lo hanno trovato e saranno lieti di darlo a noi in cambio di un aiuto» concluse Daniel allegro. «Mi piace come ragioni, piccoletto».

«Non era questo che intendevo quando ho detto che avremmo dovuto aiutarli» si intromise Jord. «Non ho mai parlato di chiedere una ricompensa».

«La cosa importante non è aiutarli? Se fossero anche disposti a pagare, non vedo perché dovremmo tirarci indietro» aggiunse Daniel.

«E se non lo fossero?» lo sfidò Jord.

«Direi che non è il momento di pensare a questa eventualità. La cosa migliore che possiamo fare è recarci da loro e conferire con il loro capo» propose Jake, per conciliare le due parti. «Se dopo averne discusso alcuni di noi non pensano che valga la pena aiutare la tribù, possono sempre risalire in superficie da soli. Non siamo obbligati a muoverci in gruppo».

«Mi sembra la proposta migliore» concesse Jord, squadrando Galatea con il volto alterato. «D'altronde non si può imporre la pietà in chi non ne possiede neanche un frammento».

Il ranger si voltò verso Spock, che per tutto quel tempo era rimasto poggiato alla parete, a braccia conserte, attendendo che una decisione venisse presa.

«Spock, cosa ne pensi?» domandò, avvicinandosi a lui.

«Penso che parlare con la tribù sia la cosa migliore. Voglio sapere chi sia il Linnormr di cui vi ha parlato il coboldo» rispose lui con decisione.

«Galatea, tu sei d'accordo per questa soluzione?» le chiese Jake. Lei annuì distrattamente, irritata dall'interruzione e dalla conciliazione del ranger. Avrebbe preferito continuare a discutere e dimostrare a quel chierico supponente quanto fosse ridotta e antiquata la sua versione del mondo.

«Bene, allora proseguiamo e cerchiamo di non perdere troppo tempo. La madre di Timmy sarà in pensiero per lui» disse Jake, cercando con lo sguardo il bambino. Lo trovò dall'altra parte della stanza, accanto all'entrata, seduto a parlare con Meepo. Il coboldo sembrava essersi ripreso, anche se la sua voce acuta era ancora intervallata da grossi sospiri. Quando gli comunicarono la decisione appena presa, tutta la desolazione che lo aveva contraddistinto lo abbandonò, per venire sostituita da una lieve esaltazione.

«Meepo sapeva voi no malvagi. Meepo aveva detto a Timmy, ma lui no credeva.»

«Meno male che c'eri tu a difendere la nostra bontà allora» rise Daniel.

«Seguite Meepo, lui accompagna da Yusdrayl».

«Chi è Yusdrayl?» chiese Ben.

«Lei capo tribù. Andare, tribù oltre porta».

Si diressero verso l'entrata opposta a quella che aveva visto il loro ingresso, lasciandosi il tavolo alle spalle e la grande gabbia vuota alla sinistra; in quest'ultima, Ben aveva sistemato i resti del piccolo drago, nascondendoli poi sotto una coperta sgualcita e sporca, in attesa di avere l'occasione di seppellirlo.

Timmy venne fatto camminare in mezzo a loro, per poterlo proteggere contro eventuali pericoli inaspettati, e il bambino li seguì docile, sollevato per la gioia che aveva conquistato il suo nuovo amico.

La semplice porta di legno che si trovarono davanti era chiusa a chiave, ma Meepo ne possedeva una copia e l'aprì, indicando loro una nuova entrata oltre lo stretto e corto corridoio, su cui si erano affacciati. Prima di proseguire, Spock rinnovò la sua torcia, poi seguendo il coboldo si mise in fila dietro gli altri, illuminando loro il cammino.

Quando la seconda porta venne aperta, anch'essa con una grossa e antiquata chiave semi-arrugginita, davanti a loro si aprì un'altra sala, ben più vasta di quella appena lasciata e illuminata di una luce soffusa, proveniente dalle torce fissate alle pareti.

Sul pavimento, una moltitudine di occhietti gialli li fissava intensamente.

Le Fiamme di Dóiteáin - Cronache di Irvania IDove le storie prendono vita. Scoprilo ora