- 14 - I'll Wait For You

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«Cosa facciamo?», chiesi a Korel che mi sembrava l'unico disposto ad ascoltarmi in quel momento.

«Adesso andiamo a provare. Ci dobbiamo sbrigare, è tardi.», rispose guardando l'orologio.
«Dannato traffico.»

«E poi?»

«E poi andiamo in albergo. Secondo la tabella di marcia», guardò sul suo smartphone, «Avremo un po' di tempo per rinfrescarci prima di cena. Mi raccomando, porta in camera solo le cose essenziali; staremo poco qua.»

«Sì-ssignore!», risposi ironicamente, seguendolo a ruota verso lo stadio e stringendomi al petto il taccuino.

Korel, preso dall'ansia organizzativa, iniziò a torturarsi i lobi delle orecchie, sistemandosi convulsamente i dilatatori. Poi passò a lisciarsi la barba scura ed una volta finito - ormai eravamo entrati - abbassò gli occhi su di me.
«Allora, tu aspettami qua. Io vado a parlare con i tecnici e chiarisco le ultime faccende col responsabile.», mi disse controllando di nuovo l'orario.
«RAGAZZI, MUOVETEVI! Aiuta Vinny, per piacere. Ci ritroviamo qua e poi mi intervisterai, va bene?», mi limitai ad annuire mentre lui raggiungeva un uomo sulla 50'ina, vestito in un modo che sembrava voler dire "Ehi, guarda. Sono il capo, ma non voglio tirarmela, quindi ho messo questo maglioncino che mi regalò nonna."

Lasciai penna e block-notes su un portaombrelli ed andai ad aiutare Vinny a portare il set.
Mi ordinò di occuparmi dei piatti, indicando le ultime custodie rimaste.
Le presi non aspettandomi pesassero così tanto. Strinsi i denti ed iniziai a fare le rampe di scale che conducevano al campo da gioco. Là si ergeva il palco dove il telone che faceva da sfondo era in fase di montaggio, Korel era così agitato da rischiare un infarto e gli altri stavano a sistemare gli strumenti.
Portai i piatti sulla pedana riservata alla batteria e li lasciai lì in attesa di altri ordini.

«Adesso?», chiesi guardandomi attorno. Mi piaceva quel trambusto, seppur mi sentivo fuori posto.

«Vai pure, ci penso io.», tagliò corto il batterista, mettendosi le bacchette in una tasca posteriore dei pantaloni e iniziando a tirar fuori il kick.
Korel sembrava aver sbrigato tutto, per questo iniziò a dirigere gli operai - che seppur gentili già non lo sopportavano più.

«Hai da fare?», domandai cautamente, mentre pretendeva di saper far meglio il lavoro altrui.
Era una primadonna barbuta.

«Sì.», rispose prendendo un trapano in mano e salendo su una scala.

«No, you don't!», lo rimproverò il povero operaio a cui rubò l'arnese con uno spiccato accento francese.

«Penso abbia ragione. Perché non scendi e ti rilassi con l'intervista?»
Si convinse e fu così che dopo una sola domanda - "È difficile separarsi dalla propria moglie e dal proprio bambino per lavoro?" - mi raccontò tutta la sua vita, con tanto di rabbia, accenni a lacrime, voglia di vendetta e ancora lacrime.
Alla fine capii che era solo un padre che amava la sua famiglia e per questo era diventato un maniaco sul lavoro, per assicurare loro una vita dignitosa.
Questo suo lato lo rendeva più sopportabile, più umano.

Dopo un'ora e mezza le prove finirono, ponendo un punto al racconto del manager. In una ventina di minuti gli strumenti furono riposti con gli amplificatori nel loro vano apposito sul retro tour bus.
Quando arrivammo in albergo erano già le 18:30 e avevo una splendida ora circa per farmi i fatti miei, come accennò Korel.
Mi rilassai a leggere il mio libro e guardai con malinconia le foto fatte con mio fratello e Giulia.
Quei preziosissimi ricordi di una vita ancora spensierata, fatta di semplici pomeriggi passati con gli amici, quelli veri.
Chissà quando li avrei rivisti, tra la fuga e il processo.
E se fossi rimasta negli States perché lo volesse Ricky?
Sofia, non ti illudere troppo.
La mia coscienza cercò di sopprimere certe idee sciocche, ma che ne potevo sapere? Se fosse davvero successo, dovevo esser pronta.

City LightsWhere stories live. Discover now