Sul suo lavoro e sulla sua voglia di cambiare.

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Sono passati quasi dieci anni da quell'ennesima sigaretta fumata prima di andare a lavoro.

Tante cose sono cambiate. Tante altre no.

Il suo lavoro per esempio. Commessa era e commessa è rimasta. Troppa paura di lasciare il tanto agognato posto fisso.

"Chi te lo fa fare di lasciarlo?"

"E poi che fai?"

"Pensi di trovare di meglio?"

Queste le domande che le venivano poste le poche volte che riusciva a trasformare in parole quello che aveva dentro.

Queste le domande che si poneva lei stessa, le tante volte in cui ciò che aveva dentro rimaneva esattamente lì, dentro di lei.

Razionalmente quelle domande non facevano una piega.

Lavorava part time, aveva tanto tempo libero, e uno stipendio più che onesto commisurato all'impegno e alle ore lavorate.
Ferie, contributi, scatti di anzianità, malattia; c'era tutto quanto.

E c'erano quelle quattro paroline magiche, diventate così difficili da trovare; contratto a tempo indeterminato.

Praticamente impossibile farsi assumere a tempo indeterminato al giorno d'oggi, sei fortunata, le dicevano tutti, il lavoro non deve piacerti per forza, ma un lavoro serve, e tu hai, in sostanza, la garanzia di averlo per sempre.

Già. E che fare se quel per sempre, aspirazione massima per alcuni, a lei iniziava a far mancare l'aria?

Si sentiva ingabbiata, fregata, costretta in qualcosa in cui si era cacciata lei.

Benedetti giovani, e benedetti adulti, che ci avete cresciuto con il mito del contratto a tempo indeterminato, che i tempi oggi sono cambiati, nessuno assume più, il lavoro quando hai la fortuna di trovarlo devi tenertelo stretto. Che ansia.

C'è da dire che a quelle domande che le ponevano gli altri e che si poneva lei stessa, non aveva queste grandi risposte.
Guardandosi intorno vedeva solo gente disoccupata, o gente che lavorava saltuariamente, o gente che faceva lavori che odiava, lavori che non c'entravano niente con quello che uno vorrebbe fare.
Il suo piccolo paese di opportunità non ne offriva molte.

Amava leggere, e amava scrivere. Aveva una laurea presa e mai utilizzata, pergamena chiusa in un cassetto, neanche appesa in casa. Diventata neanche ornamento.

Qualcosa aveva anche scritto, dove per "qualcosa" qui si intende l'andare oltre il semplice diario che aveva sempre avuto, fin da quando aveva imparato a scrivere.

Ma poi finiva lì.
Il mondo degli scrittori era complicato, per non parlare di quelli esordienti -sconosciuti forse sarebbe un termine più giusto, quelli che non considera nessuno una definizione ancora più onesta,- ma esordienti era meglio in effetti. Aveva un che di poetico.

Tutti, tanti, chiedevano di pagare per pubblicarti qualcosa.
Tutti molto interessati, scrivi bene, ci sai fare, ci piacerebbe pubblicarti. Dovresti pagare mille-duemila-tremila euro e si parte.

Come per diventare giornalista.

Leggeva di quando in tempi non lontanissimi per diventare giornalista, pubblicista almeno, dovevi svolgere un periodo di praticantato in una vera redazione. E poi potevi fare l'esame e ottenere il tuo tesserino. E poi dovevi trovare il modo di lavorarci, con quel tesserino, ma quella era un'altra storia.

Anche adesso era così. Legge invariata, pratica cambiata tantissimo.
Nessuno assume più i praticanti. C'è crisi.
Meglio gli stagisti, gratuiti e da cambiare ogni sei mesi.

Ed ecco allora nascere le perfette scuole di giornalismo. Private, esclusive, dove il mestiere lo impari davvero. Esci da lì e fai l'esame. Bypassi il periodo di praticantato. Perfetto. Se non fosse che costavano migliaia di euro, quelle scuole, e uscito da lì il lavoro da giornalista, con il tuo tesserino nuovo di zecca, lo dovevi comunque trovare.

In questi casi, oltre alla sua naturale incapacità di buttarsi nelle cose e provarci, le sembrava un discorso sbagliato in partenza.

Se uno vale, se sa scrivere, scrivere per davvero, perché dovrebbe pagare per vedersi riconosciuto il merito del suo essere bravo?

Se uno vuole imparare un mestiere, mestiere che la legge ti obbliga ad ottenere tramite un periodo di praticantato, non di stage, ci vuole proprio il praticantato, perché deve pagare per poterlo fare?

"Ma le scuole sono buone, esci da lì che sei pronto davvero". Forse. Ma se io non volessi spenderli, tutti questi soldi, o magari non li avessi?

È giusto precludere in partenza qualcosa a qualcuno solo basandosi su quanto quel qualcuno possa pagare? È giusto che un altro qualcuno, che magari bravo non è, ma ricco sì, possa superarti? E avere la carriera che anche tu avresti voluto?

Come funzionava quella cosa della meritocrazia?

"Leggere e scrivere non ti faranno pagare le bollette", finiva per rispondersi in quei giorni in cui trovava una certa determinazione, chissà dove poi, e si sentiva decisa a voler cambiare.

Licenziarsi. Abbandonare il posto fisso. Trovare davvero la sua strada.

Cercava su internet, posto magico in cui tutto sembra possibile ma poco si realizza davvero, e le si aprivano davanti chissà quante opportunità. Curriculum pronto, corredato di foto e lettera di presentazione, che aspettava solo di essere inviato.
Ma poi, per un motivo o per un altro, non andava mai fino in fondo. Leggeva, si informava, ma poi c'era sempre qualcosa che la bloccava.

Qui si lavora a tempo pieno.

Questo è a Milano, non mi posso trasferire ora.

Qui ci vuole la partita Iva, non so se voglio aprirla.

Sono tutti a tempo determinato. E quando finisce il contratto, che faccio?

Andava sempre a finire che trovava un sacco di scuse.

E quindi tornava a vedere il lavoro, il suo nello specifico, come gran parte della gente vede il lavoro. Qualcosa che si fa, che va fatto, perché non si vive di sogni e questo il crescere glielo aveva insegnato.

Aveva trent'anni adesso, una casa, un fidanzato, un lavoro che si definisce onesto. Aveva anche tanti sogni, ingarbugliati, imprecisi, indefiniti e dai contorni vaghi, come sono i sogni, chiusi nel cassetto. E dentro di lei.

Storia di straordinaria normalità.Nơi câu chuyện tồn tại. Hãy khám phá bây giờ