Capitolo 16 ♡ Dana

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Martedì arrivò come un fulmine a ciel sereno.
Le ultime settimane stavano iniziando a scorrere più veloci del solito. Alla fine, le lezioni speciali di ballo che stavo dando a Carlotta si erano trasformate in un appuntamento fisso, ci eravamo già incontrate tre volte negli ultimi cinque giorni. Era così insistente che, pur di evitare di trovarmela davanti a scuola, implorandomi di vederci di nuovo nel pomeriggio perché era super in panico per il giorno della partita, le concedevo di passare a casa mia ogni volta che avesse avuto bisogno di ripassare.
«Sembri più leggera, in questi giorni» stava dicendo la mia psicologa. Eravamo già a metà del nostro solito appuntamento e non avevamo ancora tirato fuori l'argomento Rachele e Christian.
«Credo che sia perché stiamo facendo una competizione, a scuola, e devo imparare una coreografia. Non ha nulla a che fare con il cheerleading, ma è la cosa che gli si avvicina di più che ho fatto negli ultimi mesi.»
«È molto bello. Non hai pensato di iscriverti ad un corso di ballo, fuori dalla scuola?»
Inclinai la testa di lato. Onestamente, mi era sempre mancato fare parte della squadra di cheer, ma quello che pensavo agognassi era di far parte di un gruppo, di tornare dalle mie amiche e passare i pomeriggi in palestra, come avevo sempre fatto dall'inizio della scuola. Pensavo che mi mancasse la mia routine, la mia normalità, quella che era ormai diventata la mia identità come capitana della squadra. Tuttavia, non mi ero mai fermata a pensare che, quello che mi mancava sul serio, era muovermi al tempo della musica e perdermi nelle sue note.
«No, l'idea non mi aveva nemmeno lontanamente sfiorata» risposi, sincera. «Crede che potrebbe aiutarmi? Nel senso, se tornassi a ballare starei meglio?»
Mi sentivo a disagio a fare quel tipo di domanda, non mi sentivo ancora pronta per sentirmi meglio. Era quasi come se non volessi sentirmi meglio. Perché mai avrei dovuto meritarmelo, in fondo?
«Credo che dovresti provarci. Certe volte c'è bisogno di qualcosa che ci porti conforto, per sentirsi bene con noi stessi. Non serve tornare nel passato, va bene trovare anche qualcosa di nuovo, qualcosa che non abbiamo ancora provato.»
«Come un nuovo amico?»
La mia mente era corsa a Carlotta. Lei era sicuramente qualcosa di interamente nuovo per me, per il mio intero mondo. Era come un piccolo sole che si spostava, portando energia e sicurezza con il suo passaggio. E io non ero nulla di tutto quello.
«Esattamente come un nuovo amico» annuii lei. «Hai conosciuto qualcuno negli ultimi giorni?»
«Più o meno.» Di Carlotta non volevo parlare. Non avrei nemmeno saputo cosa dire, onestamente. Non eravamo amiche, eravamo conoscenti. Passavamo del tempo assieme solamente perché eravamo obbligate dalla competizione. In altre circostanze, non si sarebbe mai e poi mai avvicinata a me. Era stato il caso ad unirci e lei era una ragazza troppo gentile per trattarmi male, era solamente la sua natura.
«Un nuovo amico potrebbe essere qualcosa che ti farà bene, ma sembra che tu preferisca tornare dai tuoi vecchi amici» mi spronò a parlare lei.
«Ormai è già Novembre inoltrato, non credo che le cose con i miei vecchi amici si risolveranno mai. Anche se, devo ammettere, che l'unica cosa che voglio è che tutto torni come prima, ai tempi in cui io, Rachele e Christian eravamo tutti amici, uscivamo assieme e ci confidavamo gli uni con gli altri.»
«Certe volte le cose cambiano, ma non è sempre un male. Potresti trovare qualcosa di bello anche in questo cambiamento.»
Era come diceva il detto: non tutti i mali vengono per nuocere. Capivo il suo punto di vista e capivo che voleva farmi sentire meglio, ma in quel momento non mi sembrava affatto che il mio problema potesse avermi aiutato in qualche modo. Anzi, aveva distrutto tutto quanto.
Rimasi in silenzio, ascoltando il ticchettio dell'orologio. Quel giorno mi ero fermata a guardare l'orario solamente poche volte, non ogni minuto come facevo di solito. Significava che la terapia stava funzionando? Stavo iniziando a stare meglio, sul serio? Perché a me non sembrava di stare meglio.
«Sei riuscita a parlare con Rachele o Christian negli ultimi giorni?»
«Li ho visti, sì. Lei mi ha praticamente urlato addosso e poi li ho trovati che si baciavano sul suo portico.» Le mie parole erano venate da una certa ilarità. Tossii, sotto lo sguardo curioso della dottoressa. «Mi dispiace, non c'è nulla che faccia ridere in tutto questo. Era una risata nervosa.»
«Va bene così,» mi sorrise lei, «dovresti sempre mostrarmi le tue sincere emozioni. Non c'è bisogno di nascondersi, qui con me sei in uno spazio sicuro.»
Lo diceva sempre, me lo ricordava ad ogni singola sessione. Ovviamente, le credevo. Quello era il suo lavoro e non mi avrebbe mai giudicata per quello che facevo o dicevo. O almeno non lo avrebbe fatto davanti alla mia faccia. Probabilmente dentro di sé pensava che fossi la ragazzina più problematica che avesse mai visto in tutti i suoi anni di lavoro.
«È solo che sembra quasi un brutto scherzo. Le due persone che prima mi erano più vicine, quelle che conoscevano tutto di me, ora fanno finta che io non esista più. Stanno continuando le loro vite, insieme, per giunta.» La risata aveva lasciato dietro di sé un senso di amarezza che presto si era trasformato in un mezzo singhiozzo.
«Come hai scoperto che stavano insieme? Te l'hanno detto loro?»
Scossi la testa, facendo segno di no. «Rachele organizza una festa, ogni anno. Li ho visti lì.»
Evitai di raccontarle come non ero stata invitata a quella festa o come poi mi fossi rinchiusa in camera di Rachele o di come dopo ancora fosse arrivata Carlotta nella stanza, uscendo dal nulla, come se fosse stata destinata a venirmi a salvare. Lei, comunque, sembrava aver capito da sola che c'era qualcos'altro che mi turbava.
«A questa festa, hai parlato con loro?»
Scossi di nuovo la testa. «Li ho solamente visti da lontano. Non penso nemmeno che loro si siano accorti della mia presenza, o sono sicura che Rachele mi avrebbe preso da parte.»
«Prima hai detto che ti ha urlato addosso, non è successo alla festa?»
«No, è stato molto prima, ad inizio ottobre.»
Lei mi studiò, scribacchiando qualcosa sul suo taccuino, forse preparandosi la prossima domanda, forse cercando il modo migliore di dirmi che ormai la mia vita sociale era spacciata. Tuttavia non fece in tempo a pronunciare nessuna delle due sentenze. Il nostro tempo era scaduto.
Tornai a casa con più pesi sul cuore di quanti non ne avessi avuti una volta entrata nell'ufficio della psicologa. Nel tragitto dal centro a casa, con mia madre che guidava al mio fianco, iniziò a piovere a dirotto.
Appoggia la testa al finestrino dove una serie di gocce stava tracciando tragitti contorti contro il vetro, lasciando dietro di loro diverse scie a disegnare una rete intricata. Le luci delle case e dei lampioni, fuori, sembravano quasi essere offuscate dal grigiore che aveva pervaso di colpo la città.
I miei pensieri si muovevano al ritmo dei tergicristalli della macchina. Sembrava che tutto il mondo si muovesse più lentamente. La dottoressa diceva che ero pronta per cambiare pagina, per andare avanti, per trovare un nuovo hobby e dei nuovi amici con cui passare i miei pomeriggi. Io pensavo che non fossero i miei vecchi amici il problema. Ero io il problema. Anche se avessi trovato qualcun altro con cui uscire, io ero comunque la stessa Dana di sempre.
«Com'è andato l'appuntamento?» chiese ad un certo punto mia madre, spegnendo la radio che aveva lasciato fino a quel momento come sottofondo del nostro viaggio silenzioso.
«Bene» mentii per metà io. Perché era andato meglio del solito, ma questo non significava che fosse stato il pomeriggio più bello della mia vita. «La psicologa dice che dovrei provare ad iscrivermi ad un corso di danza. Dice che potrebbe aiutarmi a stare meglio.»
«Ho i miei dubbi che centinaia di euro per stare in una stanza con degli specchi ti possa aiutare in qualche modo» commentò lei, la voce critica di chi pensava di saperla lunga su come funzionavano veramente le cose.
Avrei potuto chiederle perché allora spendeva centinaia di euro in una psicologa se pensava di essere migliore di lei, ma prima che lo potessi fare aggiunse: «Comunque, se pensa che sia una buona idea, ci proveremo. Ormai è troppo tardi per iscriverti ad un corso, immagino le lezioni siano già iniziate. Proverò a sentire se conosco qualcuno che possa darti delle lezioni private.»
«Grazie.»
La guardai per qualche secondo, con i suoi capelli piatti e le righe d'espressione che la facevano sembrare sempre arrabbiata o sul punto di iniziare a gridare dalla disperazione, poi riportai lo sguardo sulla strada davanti a noi.
Arrivate a casa, papà ci stava già aspettando con un panno sopra la spalla e un mestolo sporco di riso nella mano destra. Ci sorrise, come se avesse appena visto entrare le sue due persone preferite al mondo. E forse avrei potuto pensarlo, se non avessi saputo che amava molto di più Lani rispetto a me.
«Ecco le mie ragazze! È quasi pronta la cena, dovreste andare a lavarvi le mani e a chiamare Lani. Fra cinque minuti sarà tutto servito in tavola» ci salutò lui, pieno di energie. Al contrario di mamma, non sembrava mai che il lavoro lo sfinisse fino all'esaurimento nervoso. Ogni sera sembrava come se non avesse appena passato l'intera giornata a curare carie e mettere apparecchi a ragazzini urlanti, ma più come se si fosse appena alzato da una lunga nottata di sonno ristoratore e fosse pronto ad affrontare con piene forze l'intera giornata.
Quando le persone incontravamo la mia famiglia, dicevano sempre che io assomigliavo tutta a mia madre, invece era Lani quella ad assomigliare a nostro padre. Qualche volta, lo prendevo come un insulto.
Salii al piano di sopra e trovai Lani in camera sua, con la porta della stanza completamente aperta. Era sdraiata sul pavimento, nel bel mezzo di quella che sembrava l'esplosione di un puzzle da un miliardo di pezzi. Al momento, era occupata a suddividere i tasselli in base al colore, diceva sempre che così che poi sarebbe stato più facile comporre i vari pezzi dell'immagine.
Mi dispiaceva interromperla, ma sapevo che se nessuno lo avesse fatto, si sarebbe ritrovata senza mangiare. Fin quando non avrebbe finito il puzzle e si fosse accorta di avere dei bisogni fisici da soddisfare.
«Lani» dissi, bussando leggermente sullo stipite della porta. «Papà ha preparato la cena, vai a lavarti le mani.»
Lei non alzò nemmeno lo sguardo prima di rispondermi. «Solo due minuti, devo finire di suddividere i pezzi. Se non lo faccio adesso non so cosa potrebbe succedere.»
Negli ultimi giorni aveva iniziato a sviluppare dei rituali o a considerare delle azioni come propedeutiche alla sfortuna se non fatte un numero pari di volte. Il fatto che pensasse che, sistemando in un arcobaleno quei piccoli pezzi di cartone, ci avrebbe tenuto al sicuro, mi faceva scaldare il cuore.
«Va bene se ti aiuto?» le chiesi, prendendo posto di fianco a lei in quel cerchio colorato che si era creata attorno.
«Sì, ma stai attenta a non mischiare i colori. Se non sai dove metterli ti aiuterò io» mi ammonì lei, guardandomi storto, come se la mia abilità di distinguere il giallo dal verde fosse qualcosa su cui non contare più di molto.
Ci mettemmo al lavoro e nel mentre cercavo di farla parlare della sua giornata. Sembrava che quei bambini non le avessero più dato fastidio da quando avevo parlato con mamma, bene.
«Sai se qualcuno è venuto a casa nostra, di recente?» domandò lei ad un certo punto. Avevamo quasi finito la pila ancora da suddividere, ci mancavano solamente una decina di pezzi.
«Sì» risposi titubante. «Ho portato un'amica a casa.»
«Una nuova amica?»
«Sì, si chiama Carlotta.»
«E sta usando le ciabatte di Rachele?»
Risi a quella domanda. «Sì, perché?»
Lani si strinse nelle spalle, come se la risposta fosse stata abbastanza ovvia e io fossi stata scema a non capirlo da sola. «Ha un profumo migliore del suo. Tutto qui.»

Like Rain ♡ {GIRLxGIRL}Where stories live. Discover now