Capitolo 2 ♡ Dana

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Il martedì era il mio giorno della settimana preferito, un tempo.
Il martedì c'erano le prove del gruppo di cheerleading in contemporanea con quelle di basket.
Il martedì, appena finito di allenarci, io e Christian saremmo andati a casa sua, o da qualche altra parte, per passare il tempo. Il giorno dopo, a scuola, c'erano materie stupide come ginnastica e religione per cui non c'era alcun motivo di star seduti sui libri.
Il martedì, ora, lo odiavo. Non facevo più parte delle cheerleader, Christian non mi voleva più guardare in faccia e io passavo il mio pomeriggio rinchiusa nello studio di una psicologa.
La dottoressa Baria non era così male, in realtà. Mi faceva sentire sempre a mio agio e spesso uscivo dalla sua porta con meno pesi sulle spalle, ma avrei preferito non dover andare da lei, da principio.
«L'altra volta mi stavi raccontando del tuo fidanzato, Christian, e della tua amica, perché non ripartiamo da lì?» mi stava chiedendo la psicologa.
Io ero seduta su una larga poltrona di pelle marroncina, lei era davanti a me, su una sedia girevole. Alle sue spalle una facciata intera di vetrate si apriva sulla strada sottostante. Nonostante riuscissi a vedere macchine e macchine passare sull'asfalto, persone camminare sul marciapiede, uccelli volare in cielo, non mi arrivava nessun rumore dall'esterno. L'unica cosa udibile alle mie orecchie era il ticchettare dell'orologio, proprio alla mia destra, che scandiva inesorabilmente il tempo concessomi in quella stanza. Allo scoccare preciso dell'ora la dottoressa Baria mi avrebbe fatta alzare, scusandosi, per poter accogliere il prossimo paziente. Ho sempre trovato strano come noi, come società, abbiamo iniziato ad avere il bisogno di pagare qualcuno solamente per ascoltare i nostri problemi. Cosa è successo all'amicizia? All'amore? Ma non ero certo io la persona più indicata per porre queste domande.
«Non c'è poi molto da raccontare. Nessuno dei due mi rivolge più la parola» risposi. Era strano, come difronte a lei mi sentissi in dovere di esprimermi con parole ricercate, fermandomi a pensare quale termine sarebbe suonato meglio sulle mie labbra. Forse perché era un adulto e la cosa mi metteva leggermente a disagio. In fondo, cosa ne avrebbe capito lei dei problemi di una ragazzina? La sera sarebbe tornata a casa, probabilmente dalla famiglia, o da un partner, non certamente dai suoi genitori che la guardavano a malapena. Non avrebbe passato la serata sui social media a chiedersi cosa i suoi coetanei pensassero di lei e sperando in tutti i modi che prima o poi l'accaduto venisse dimenticato, abbandonato da qualche parte, dove nessuno lo avrebbe mai più potuto trovare.
«Perché non ti parlano più?» Le sue domande erano sempre così, incalzanti. Non mi lasciava mai un momento per pensare, per muovere la conversazione in un punto lontano da dove mi avrebbe fatto più male.
Avrei voluto non rispondere, se chiunque altro me lo avesse chiesto non gli avrei risposto, ma lei era lì per quello. Mi avrebbe giudicata, certo, ma l'avrebbe fatto per aiutarmi a stare meglio. «Io... sono stata una persona orribile. Una fidanzata orribile. Hanno tutto il diritto di non parlarmi più, so che è così.»
«Riesci a dirmi cosa hai fatto?»
La guardai negli occhi, mentre lei mi osservava, la penna e il taccuino appoggiati sulle ginocchia, ma quando risposi spostai lo sguardo altrove, sul paesaggio alle sue spalle. «Ho tradito la sua fiducia. So che non avrei dovuto farlo, ma io... dovevo. So che non è una spiegazione valida, ma dovevo davvero farlo. Non c'era altra via d'uscita per me.»
Sentivo la gola chiusa in un nodo, come se qualcuno dentro al mio corpo si fosse divertito ad intrecciarla.
«Non devi cercare delle scuse, non c'è bisogno che tu mi dia delle spiegazioni. Sei una brava ragazza e sei qua solamente per raccontarmi cosa ti sta facendo soffrire. Ti senti male per quello che hai fatto?»
Annuii con forza. Certamente mi sentivo male. Non riuscivo a dormire da giorni. Non pensavo ad altro che a quello.
«C'è qualcos'altro che ti fa sentire male?»
Lei sapeva che c'era dell'altro, sicuramente glielo aveva detto mia madre, ma cercava sempre di tirarmi fuori le parole dalla bocca, anche quando io non avevo voglia di continuare a parlare. In qualche modo, funzionava sempre.
«Sono iniziati dei pettegolezzi, sul mio conto. Qualcuno ha scoperto che avevo lasciato Christian e l'ha pubblicato sulla pagina instagram della scuola, ipotizzando che la ragione fosse un tradimento, e presto tutti lo sapevano, dando per scontato che quella fosse la verità. Il giorno dopo a scuola tutti mi criticavano alle spalle, le mie compagne hanno anche deciso di tagliarmi fuori dalla squadra di cheerleading.»
«E i tuoi amici?»
«Non mi parlano, nessuno mi parla più. Sono completamente da sola.»
In quel momento non riuscii più a trattenermi. Le lacrime iniziarono a scendere più copiose di quanto pensassi, inondandomi le guance e il collo.
La psicologa si allungò verso una scatola di fazzoletti e me li porse. «Piangere ti fa bene, devi sfogarti. Continua finché ne hai bisogno.»
Se l'avessi fatto sul serio saremmo restate lì tutto il giorno, quindi cercai di ricacciare indietro le lacrime, asciugandomi quelle che erano già uscite con uno dei fazzoletti.
«Non dovrei piangere, perché me lo sono meritato. È solo colpa mia se mi trovo in questa situazione» dissi, stringendo i pugni appoggiati sulle mie gambe, stritolando nelle mani quel povero pezzo di carta che non aveva fatto nulla di male.
«Hai fatto qualcosa di sbagliato, ma non per questo ti meriti di essere esclusa a scuola. Tutti hanno il diritto di essere perdonati.»
«Ma a loro non importa, non mi perdoneranno mai. E forse è meglio che sia così. Non mi merito di avere qualcuno attorno.»
«Dovresti iniziare perdonando te stessa, poi potrai chiedere anche agli altri di perdonarti. Finché ti ritieni colpevole io non posso aiutarti, lo capisci?» chiese, allungandosi a guardare l'orario sull'orologio. Mancavano cinque minuti. Quando era passato tutto quel tempo?
Annuii, anche se non ero sicura di capire sul serio.
Ero oggettivamente dalla parte sbagliata, non mi sarei mai perdonata per quello che avevo fatto a Christian. Ovviamente me ne pentivo, ma ormai non si tornava più indietro. Meritavo l'esclusione da tutto. Eppure non riuscivo a farmene una vera ragione.
«Tua sorella, Lani, ha di nuovo cercato di parlarti?» domandò ancora, riguardando i suoi appunti sul taccuino. Probabilmente si era scritta tutte le cose che le avevo detto nel corso dei nostri incontri. Era strano pensare che la mia vita fosse stata riassunta in poche pagine su quel quadernino, insieme a quelle di tutti gli altri pazienti della dottoressa.
«Sì, ma abbiamo finito per litigare» risposi, guardandomi le ginocchia.
Lani aveva solamente nove anni, non era facile spiegarle quello che stava succedendo. Continuava a farmi domande, a chiedermi perché non mi vedessi più con Christian, perché non andassi più agli allenamenti, e io non avevo idea di come risponderle. Finivo sempre per urlarle dietro che non avevo tempo per lei, che mi stava rompendo le scatole e che avrebbe fatto meglio ad andarsene in camera se non avesse voluto che dicessi alla mamma qualche suo grande segreto. Così lei si metteva a piangere o urlava o andava lei dalla mamma prima che potessi farlo io.
«Perché avete litigato?»
«Qualcosa di stupido, ora non me lo ricordo.»
«Dovresti cercare di aprirti di più con lei, potrebbe aiutarti.»
Scossi la testa, con decisione. «Ha solamente nove anni, non può capire.»
La psicologa non sembrava convinta, storse leggermente le labbra prima di replicare. «Anche se è più piccola non devi sottovalutarla. È tua sorella, ti vorrà bene anche dopo che le avrai spiegato la situazione. Non puoi lasciarla all'oscuro per sempre. Meglio dirglielo noi, invece di farglielo scoprire da qualcun altro, non credi?»
Feci segno di sì con la testa.
«Posso aiutarti, se hai paura a farlo da sola. Puoi portarla qua con noi, la prossima volta. Ci vorranno solamente cinque minuti, poi potrà uscire e noi finiremo il nostro appuntamento da sole» propose, vedendo che non aggiungevo altro.
Non avevo nulla da dire, quindi mi limitai ad annuire di nuovo.
Mamma non avrebbe mai permesso che Lani venisse con me dalla psicologa. Trovava già imbarazzante lasciarmi davanti al portone del suo ufficio. Per lei, la mia "uscita di percorso", come la chiamava lei, era stata una macchia indelebile sull'immagine della famiglia. I primi giorni non riusciva nemmeno a guardarmi in faccia. Non avrebbe mai e poi mai permesso che la sua figlia ancora intatta si avventurasse in un posto del genere, per ascoltare i miei peccati, per giunta.
«Il nostro tempo è finito. Ci vediamo settimana prossima con Lani, allora?» chiese la dottoressa, alzandosi dalla sua sedia.
«Sì, a settimana prossima» risposi, alzandomi a mia volta.
Fuori, nella sala d'attesa, non c'era nessuno ad aspettarmi.
Avrei dovuto incontrare mia madre all'angolo della strada, davanti al negozio di accessori per la casa, dove nessuno avrebbe potuto pensare che io stessi uscendo proprio dallo studio della dottoressa Baria.

Like Rain ♡ {GIRLxGIRL}Where stories live. Discover now