8. Stanchezza custode

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Sprofondo, mi sta chiamando,
mi sta aspettando...

Non galleggio, affondo ancora,
piombo nelle vene.

Sei pomice?

Lotto ancora, ogni scaglia sfugge dal respiro,
ogni muscolo mi osanna...

Sei pomice?

Sono... sfinita.
Inneggia all'abbandono, mi aspetta laggiù.

Sei pomice?

Sto scendendo, mi sta abbracciando...
Sono stanca.

Sono Zavorra
di
me stessa.

-AmberShiver

🌑

Avevo dormito, come probabilmente non dormivo da quella notte passata con Nicholas il 25 Dicembre.

Non avevo visto l'ora sul telefono mille volte, non avevo rantolato a ogni immagine che mi avevano imposto i miei incubi.

Ma ero stanca.

E non era niente di fisico, non di tangibile per lo meno. Ero sfinita. Mi sentivo stiracchiata e stracciata, flebile lembo di un tessuto usurato talmente consumato da avere le fibre lacere.

Mi sentivo sottile, come se qualcosa dentro di me si stesse assottigliando a tal punto da divenire quasi un velo impercettibile.

Non sopportavo il fatto di puzzare sempre di crema solare, di quella densa e difficile da spandere, l'unica che riusciva a proteggere dai raggi di quel sole inclemente, quella che dovevi spalmarti tutte le mattine prima di uscire.

Ero fratture che si stavano allargando, scendendo più a fondo, ogni giorno, ogni attimo che passava, ogni risposta mancata, ogni assenza di notizie...

Ero stanca di quel fare così superficiale e aperto degli australiani, come se il mondo fosse sul palmo della loro mano e bastasse sorridere per essere felici.

E mi scavava sempre più, quel bisogno recondito che premeva dietro lo sterno, così vorace da avermi saziato l'appetito.

Ero stanca di avere i suoi occhi impressi dietro le pupille e aver paura di calare le palpebre, la sera. Perché tutte le volte che li riaprivo, il respiro mi rimaneva incastrato fra le costole, con quella sensazione di affogare che erano spilli in gola, sabbia in bocca, pietre nello stomaco.

Ed erano quattro mesi che andava avanti.

Ero stanca. Di tutto.

Avevo passato quasi più tempo sul suolo australiano che ad Haywards Heath e, quella constatazione, mi crepava dentro. Come se fosse una soglia di non ritorno, il segnale imprescindibile che ormai il passato mi avrebbe potuto dimenticare, lasciandomi andare.

Avevo i piedi su due zattere che, più il tempo passava, più si distanziavano tra di loro, stiracchiandomi all'infinito. Incapace di muovermi, di salvarmi, con quella voragine sotto di me che attendeva che vi sprofondassi.

Volevo solo averlo lì, davanti a me, con quegli occhi scheggiati di luna, con quel profilo sottile e affusolato che le mie dita avrebbe potuto disegnare anche al buio.

Ma c'era una vocina che continuava a grattarmi in testa, a ripetermi che forse anche lui si stava dimenticando di me o che, forse, avrebbe fatto meglio. Avrebbe avuto meno problemi.

Black Moon ~ Il peso della SperanzaWhere stories live. Discover now