37. Caffè e limonata

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[Disclaimer: Il capitolo è molto lungo per gli standard di questa storia, per cui sarà diviso in due parti.]


⚓︎ PARTE I ⚓︎


Una folata di vento accarezza il mio viso, con l'alito gelido tipico delle giornate di dicembre inoltrato. Dondolo sulle gambe e muovo le punte intirizzite dei piedi; solo il calore della tazza di caffè americano che stringo tra le dita mi impedisce di battere i denti per il freddo. Sono da poco passate le tre del pomeriggio, e il sole dovrebbe essere ancora alto nel cielo, ma, in questi venti minuti che ho passato impalata fuori dalla stazione di polizia, è rimasto sempre nascosto dietro alle nuvole.

Con la mano libera tiro fuori il telefono per controllare l'ora. Teresa sarebbe dovuta uscire più di dieci minuti fa per andare a prendere Miguel a scuola, come ogni venerdì. L'ho accompagnata diverse volte, e spero che non manchi l'appuntamento proprio oggi. È passata poco più di una settimana dall'ultima volta che l'ho vista. Da allora il muro di silenzio tra noi ed è diventato ogni giorno più alto, ma non voglio diventi insormontabile perché mi manca. Cosa le dirò resta un mistero al quale non ho avuto voglia di pensare. In più la lettera che tengo accuratamente riposta nella tasca interna della giacca potrebbe complicare molto le cose. È una presenza così ingombrante che mi stupisco che passi inosservata, mimetizzata alla perfezione tra le pieghe del tessuto. Non so ancora se mostrargliela o meno, non vorrei che pensasse che sia venuta da lei solo per questo.

Sospiro e chiudo gli occhi per schiarirmi le idee. Ogni possibile approccio che si affaccia alla mia mente sembra sbagliato, adolescenziale. Se Felipe non mi avesse fatto notare quanto mi stessi sbagliando sul suo conto, oggi non sarei nemmeno qui, e la cosa raddoppia i sensi di colpa. Ho cercato di mitigarli passando al botteghino da Ivo per portarle il suo caffè preferito e prendere qualche pastel* per Miguel, ma so bene che non basterà.

È lei a vedermi, prima che la veda io.

Alzo le palpebre e la trovo sulla soglia della caserma, intenta a fissarmi, lo sguardo severo e le labbra unite a formare una linea sottilissima. Costringo il corpo a muoversi e in pochi passi annullo la distanza tra noi. Ho le gambe molli e un panico feroce nella testa che mi impedisce di pensare.

«Oi*. Ti ho portato questo.»

Lei prende la tazza dalla mia mano tesa, toglie il coperchio e se la porta alle labbra, bevendo un lungo sorso di caffè.

«Sono in ritardo», m'informa. Il tono è brusco, ma l'occhiata che mi lancia ha tutta l'aria di essere un invito a seguirla, e io la tallono in direzione del parcheggio.

Tocca a me dire qualcosa e aspetto che entrambe entriamo in auto per farlo. «Ti devo delle scuse», esordisco, e lei risponde con un grugnito, appoggiando il bicchiere nell'alloggiamento dietro al cambio senza degnarmi di uno sguardo. «Ho sbagliato a mettere in dubbio che tu stessi agendo per il mio interesse.»

La macchina è ancora spenta, ma Teresa mette le mani sul volante e lo stringe con forza. Nello stretto spazio dell'abitacolo, la tensione si dilata tra noi come un gas nocivo e gli istanti passano lenti come fossero ore. «Quando ho scoperto che c'era un uomo che ti pedinava, ho avuto paura. Una paura irrazionale e incontrollabile, e la cosa mi ha colta alla sprovvista». Teresa lascia ricadere le mani in grembo e punta gli occhi scuri nei miei. «Mi sono ripetuta spesso che non c'è differenza tra te e una delle tante donne con cui lavoro ogni giorno. In fondo sei solo un fascicolo appoggiato sulla scrivania e associato a un volto che, con un po' di fortuna, non dovrò rivedere mai più. Ma in anni che faccio questo mestiere, non ho mai avuto paura... E questa consapevolezza mi ha gelato il sangue nelle vene, Âmbar. Ti ho protetta come non avrei mai protetto nessun altro, se non mio figlio.»

L'ancoraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora