π’•π’Šπ’π’ 𝒕𝒉𝒆 𝒆𝒏𝒅 𝒐𝒇 οΏ½...

By lokiismysaviour

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Quando tutto sembrava andare per il verso giusto, Tony Stark, anche conosciuto come il celebre Iron Man, rice... More

premessa dell'autrice
book trailer
do i call mrs potts?
you're crazy, total crazy
their soldier
who the hell is zelda?
you aren't asgardian
you've been in our lives
we are not monsters
always too many promises
deceased
not our fault
a living weapon
i owe you a dance
ursa minor
an infinity stone
let 'em see this
the name suits you
her body's a perfect machine
welcome back
just my mission
we need you
trust me
legally bought
let's go to D.C.
one in a million
master of tricks
faded 0.1
faded 0.2
for you it's a welcome back, brother
don't give me hope
a lot to talk about
power of the blue cube
hi, mr stark
fight against the lord of thunder
benatar speaking
burn this place to the ground
what did the tree say?
i missed you so much
please, don't make me wait
kidnapped
we'll kill him, together
women are driving
better get going
one last time
face the evil
endgame
epilogue
spazio autrice

she looks like aunt meg

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By lokiismysaviour

Zelda's POV

Feci un gran respiro e suonai al campanello. Mi guardai attorno, scrutando il viale silenzioso e vuoto, e alzai lo sguardo verso il vecchio porticato. Ero tornata a casa mia, dopo due settimane che ero tornata a New York.

La porta verniciata di bianco, probabilmente anche da poco, si aprì molto lentamente, rivelando un bambino che faceva capolino con la testa bionda. "Chi sei?" mi chiese curioso.

Gli sorrisi dolcemente. "La tua mamma o il tuo papà sono in casa?" domandai a mia volta.

"No, ma vado a chiamare la nonna." annuì saltellando via e lasciando la porta socchiusa.

Mi sistemai il cappello con la visiera e aspettai con calma, chiedendomi se fosse stata una buona idea. Molto probabilmente non mi avrebbero nemmeno fatto mettere piede dentro casa, figurarsi farmi andare in soffitta. Attraverso le finestre aperte e le tendine ricamate azzurre, riuscivo a sentire il profumo pungente di ragù di carne. All'improvviso mi venne fame.

"A nonna, ma io c'ho da fare, chi è che sta alla porta?" sentii una donna dire in italiano. La capii perfettamente, e non potei trattenere un sorriso spontaneo.

La porta si aprì di nuovo, e questa volta mi trovai davanti una donna di forse sessant'anni, con i capelli corti tirati indietro in una codina grigia e due perforanti occhi castani, che quando mi videro si illuminarono per un secondo. "Buongiorno. Cosa desidera?" mi disse con un leggero accento italiano.

"Salve. Il mio nome è Zelda Wyatt e mio zio era il proprietario di questa casa. Forse ha sentito parlare di me. Avrei bisogno di recuperare alcune cose che avevo lasciato qui del tempo fa. " replicai educatamente, appoggiando le mani alla cintura in pelle. Non avevo molte speranze riposte, ma pregai che tutto filasse liscio. E poi, non potevo neanche dire che ero la figlia del proprietario della casa perché, d'altronde, chi mi avrebbe creduto?

"No, guardi, mi dispiace ma questa casa è stata venduta più di cinquant'anni fa al padre di mio marito, buonanima. Forse ha sbagliato numero civico? Il 192, dal lato opposto è stato venduto da poco ad una famiglia giovane." cercò di liquidarmi dandomi le informazioni che conosceva. Quella donna sapeva tutto del viale, ne ero certa.

"Lei è Mariarosa Tosto?"

"Si, sono io. Mi puoi ripetere come ti chiami?"

"Zelda Wyatt."

"Il signore che mi ha venduto questa casa si chiamava Wyatt. Sei qualche parente loro?"

"Sì, mio zio si chiamava George Wyatt." ripetei pacifica, rispondendo, tuttavia, col nome di mio padre.

"Hai una faccia conosciuta. Giacomino, è lu ver che la signorina, qua, sembra la zia Meg quand'era giovane?" disse chiamando il nipotino. Inserì anche del dialetto nella frase, rendendomi un po' più complicato capire.

Sussultai quando sentii il nome femminile; quando ero sul fronte, mia madre mi scrisse della mia sorellina neonata che avevano deciso di chiamare Margaret. Meg è il diminutivo di Margaret. O forse mi stavo solo lasciando suggestionare.

Il bambino di prima mi raggiunse e mi squadrò da capo a piedi, replicando in inglese perfetto. Probabilmente capiva l'italiano, ma non lo parlava altrettanto bene. "Sì sì nonna, sembra la zia Meg."

"Allo', che ti serviva?" mi chiese di nuovo asciugandosi le mani al grembiule.

"Prima che andassi–" mi fermai, e le parole mi morirono in gola. Potevo dire 'prima che andassi in guerra'? Ovvio che no. "Prima che andassi a vivere a Manhattan, molte delle mie cose sono rimaste nella soffitta."

"Ah sì, non ci abbiamo messo mano. I vecchi proprietari, parenti di mio marito, li avevano lasciati qui perché si stavano trasferendo in una casa più piccola, e quindi non ci è sembrato il caso di sbarazzarcene. I ricordi di famiglia sono sempre ricordi, no?" fece una piccola pausa, nella quale mi sorrise appena e mi scrutò con discrezione. "Dai su, vieni dentro, vieni." mi invitò prendendomi per il polso inaspettatamente.

Come mai si fidava tanto di una sconosciuta? Solamente perché mi assomigliavo ad una zia che forse, e solo forse, era mia sorella? O perché avevo detto che mio zio era il vecchio proprietario, così, senza prove? Non capivo. Qualcosa non quadrava ma, hey, almeno ero dentro.

Entrai nella casa. L'arredamento era inaspettatamente simile a quello che avevo lasciato nel 1942. I mobili dell'ingresso avevano ricevuto una mano di vernice bianca, e il tavolo era rimasto quello di sempre, solamente più lucido. La poltrona era stata sostituita da un sontuoso sofà grigio chiaro, perfettamente in tinta con il resto. Tutto era rimasto pressoché nella stesse posizioni nelle quali li avevo lasciati.

"Ti fermi a mangiare?" propose la signora riscuotendomi dal mio piccolo viaggio indietro nel tempo.

Sentivo le lacrime salirmi agli occhi per la nostalgia, ma riuscii a trattenermi. "Vorrei tanto signora, grazie, ma non posso, devo tornare a lavoro."

"E che lavoro fai, bella?" si informò.

Allora era proprio vero che agli italiani bastava conoscere le tue parentele, che subito ti prendevano in confidenza.

"Ehm, sono nella Difesa."

"Ah, tipo i Carabinieri?"

"Più o meno, un po' più in grande."

Non potevo nemmeno dirle che ero un Avenger: avrei dovuto anche spiegarle come avevo fatto ad entrare, conoscendo la curiosità delle anziane signore. E poi nessuno sapeva dove fossi, in quanto in incognito, quindi potevo essere rintracciabile.

Mi tolsi il cappello mentre Mariarosa prendeva una chiave arrugginita da sotto un barattolo di gelée. Quest'ultima, poi, mi fece cenno di seguirla per le scale. Mentre camminavamo lungo il corridoio, lanciai una breve occhiata nella mia vecchia stanza, scorgendo un nuovo arredamento da bambino, con tanto di pareti tinteggiate in azzurro chiaro e cuscini a tema di qualche cartone animato moderno.

Arrivammo davanti alla parete finta, dove una serratura spuntava un po' arrugginita. La signora aprì la porta e si tirò indietro, mentre dei vecchi gradini in legno si arrampicavano a chiocciola. "Io ti aspetto sotto, che sennò mi si brucia il sugo. Fai con comodo, tanto non ho impegni."

La ringraziai e cominciai a salire le scale, sentendo già la polvere attraversarmi le vie aeree. Non appena arrivai nel ampio spazio che era la soffitta, stracolma di mobili vecchi e scatole, starnutii per un paio di volte e poi cominciai a farmi strada per cercare il mio vecchio baule. Lo trovaii in un angolo, sotto il lucernario. Il sole ne aveva scolorito la superficie marrone scuro, ma la mie iniziali dorate erano ancora ben leggibile. Z. A. W. .
La chiave era ancora inserita nel lucchetto, e, con uno scatto rumoroso, riuscii ad aprirlo.

Il vestito del mio Bar Mitzvah era stato riposto con cura sopra al resto delle mie cose. Lo spostai delicatamente e trovai i miei vari taccuini. Recuperai quello delle poesie e quello dei disegni e li infilai nello zainetto nero che mi ero portata, assieme ad una boccetta di profumo ormai quasi del tutto vuota, un album di fotografie e le vecchie lettere che mi mandava mio fratello, inclusa quella della notizia devastante che Jason mi aveva portato.
Mi iniziarono a pizzicare le palpebre, ed un colpo di tosse confermò che c'era troppa polvere. Riposi tutto ciò che avevo tirato fuori esattamente come l'avevo trovato, chiusi il baule e uscii dalla soffitta.

Il profumo del pane appena sfornato mi travolse le narici. Volevo davvero rifiutare quell'invito a pranzo?
Scesi le scale e gli odori della cucina continuavano a farsi più insistenti. Mi resi conto solo allora che mi stava brontolando lo stomaco.

"Allora proprio non ce la fai a rimanere per un po' di pasta e di secondo?" gridò Mariarosa mentre scendevo l'ultimo gradino.

Sospirai entrando nella cucina e sorrisi, arrendevole. "Che sia solo una forchettata, però."

"Giacomo, avanti che è pronto a mangiare! Lo faccio venire prima così prepara anche la tavola." mi confessò la donna con un sorrisetto.

"Signora, ma apparecchio io!"

"No no, tu sei l'ospite. E chiamami Maria, pe' piacer." mi ammonì bonariamente.

Quella famosa 'forchettata' di pasta, divenne un intero piatto di tagliatelle al ragù, e 'un po' di secondo' in realtà si rivelarono essere due cosce di pollo al forno, con patate e pane fresco.
Parlammo di tutto, seduti intorno a quel tavolo: la mia famiglia, mia sorella, la migrazione di Maria in America da un paesino del centro in Italia, il lavoro dei genitori di Giacomino e tanti altri dettagli della nostra vita. Tralasciando, ovviamente, il fatto che fossi un Soldato d'Inverno e un Avenger.

"Più ti guardo, e più penso che sei uguale spiccicata a zia Meg." constatò Maria dopo avermi squadrato, alzandosi e prendendo un quadretto appoggiato sul davanzale della finestra.

Lo presi fra le mani e osservai la donna appoggiata all'albero di fico: avevamo la stessa espressione determinata e la postura era identica. Le labbra leggermente incurvate all'insù rivelavano un sorriso gentile, molto simile a quello che avevo io.
Nonostante la fotografia fosse a colori, non riuscivo bene a distinguere il colore degli occhi, ma da ciò che potevo intuire erano verde scuro, proprio come i miei. La mia sorellina era identica a me. Era come se Dio avesse deciso di colmare il vuoto dei miei genitori con una mia fotocopia.

Sorrisi involontariamente. "Hai ragione, mi si assomiglia proprio. Quando è stata scattata questa foto?"

"Mio fratello mi disse che era il giorno del suo ventesimo compleanno, il 31 Maggio 1963."

"Dov'è adesso? Mi piacerebbe andarla a trovare." mi confidai restituendo la foto alla proprietaria.

"Vive sulla 4th Avenue, numero 503. Ogni tanto viene a farci visita e a salutare Giacomo. Di solito la mattina va a Manhattan, però se passi di pomeriggio dovresti trovarla in casa. Lo vuoi un altro goccino di vino rosso?" mi chiese dopo avermi descritto dove viveva Meg.

"Come se avessi accettato, ma non posso proprio." cercai di declinare educatamente.

"Eddai, un goccio di vino non fa mai male!" esclamò la signora versandomi del Montepulciano nel bicchiere. Non c'era verso di rifiutare da mangiare o da bere ad un italiano.

Mentre stavo per portare il calice alla bocca, mi squillò il telefono nella tasca. Poggiai il bicchiere sul tavolo e sorrisi gentilmente. "Scusatemi un attimo." dissi soltanto, prima di alzarmi e allontanarmi dalla cucina. Lessi l'ID e sussultai appena; altre due chiamate perse dallo stesso mittente. Chissà che cosa avrebbe detto non appena gli avrei comunicato il motivo per il quale ero sparita per l'intera mattinata. "Capitano." dissi appena accettai la chiamata.

"Zelda, devi tornare alla Torre." affermò preoccupato e con voce affannata. Sentivo il rumore del vento e dei clacson come sottofondo. Con molta probabilità, era in moto.

"È successo qualcosa?"

"Si, devi tornare subito alla Torre. Stiamo per arrivare anche noi. Lascia stare qualunque cosa tu stia facendo, vai via da dovunque ti trovi."

"Puoi almeno dirmi che cosa succede?" domandai di nuovo, cominciando ad allarmarmi.

"Non posso dirti nulla." lo sentii sospirare scoraggiato dall'altro capo del telefono.

"Steve, per favore. Steve!"

Mi aveva riattaccato il telefono in faccia. La cosa mi irritò un po', ma se non poteva parlarne per telefono era una cosa seria.
Presi lo zainetto e il cappello dall'appendiabiti dietro la porta ed andai a scusarmi con Maria e il bambino per la brusca interruzione del pranzo.

Mentre stavo uscendo dalla porta principale a tutta velocità, Giacomo mi prese la mano e mi costrinse a fermarmi. "Stavi parlando con il Capitano Steve Rogers?" mi chiese sussurrando, mettendosi una mano vicino alla bocca.

"Hey, giovanotto, non si spiano le conversazioni altrui!" lo rimproverai scherzosamente.

"Era Captain America?"

"Era proprio lui. E hai anche appena pranzato con un Avenger. Non dirlo a nessuno!" sussurrai a mia volta, facendogli l'occhiolino, mentre salutavo con la mano Maria, dalla finestra.

Voltai le spalle alla mia vecchia casa e corsi verso la mia moto, montando in sella e sgommando verso l'Avengers Tower.

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Buonasera wattpadiani!
Scusate se vi ho lasciato con un po' di suspense, ma non vi preoccupate che pubblicherò presto 🤗.
Alla prossima ❤️

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