dear psychologist 【 frerard 】

由 hxpelessaromantic

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« sai, succede molto spesso che il paziente si innamori del suo psicologo, è un meccanismo involontario. ma c... 更多

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由 hxpelessaromantic

Il mattino seguente Frank si risvegliò stranamente ristorato e perfettamente riposato: il sole faceva timidamente capolino dalla finestra, lasciando alcuni dei suoi raggi entrare dalla finestra per illuminare la stanza silenziosa, mischiandosi col leggero pulviscolo in sospensione nell'aria fredda. Frank represse uno sbadiglio e si mise seduto scostandosi con una mano i capelli neri dalla faccia, trovando strano quel risveglio che sembrava perfetto. Poi gli venne un flash della sera precedente, della discussione a cui aveva assistito e si sentì ghiacciare. Ma era accaduto di notte, forse era tutto un sogno, un incubo che in fondo non era altro che cenere.
Tuttavia le sensazioni sembravano reali, gli parve ancora una volta di sentire lo sconforto alla parola divorzio.
Frank si impose di non pensarci, di non apporsi un altro peso supplementare prima ancora di accertarsene l'esistenza. Si preparò in fretta per poi prendere le scarpe e scendere giù in cucina, dove la madre lo salutò con un cenno prima di tornare a bere il suo caffè. Anthony non staccò lo sguardo dal giornale, tanto assorto com'era. Il ragazzo si versò un po' di caffè nella tazza per poi sedersi, godendosi l'abituale sensazione del liquido bollente, se non ustionante, solcargli la lingua e l'esofago fin quando sua madre non insisté affinché prendesse almeno un biscotto, quelli di pastafrolla dalle forme stravaganti.
Fu allora che accadde: Linda si era alzata per prendere il vassoio, ma girandosi aveva messo male i piedi ed era inciampata, facendo cadere tutti i biscotti.
«Dannazione, ma che casino ho combinato!» si lamentò lei, cominciando a raccattare da terra i frammenti di pastafrolla e le briciole, borbottando sottovoce altre imprecazioni. Tuttavia, suo padre non mosse un dito. Aveva abbassato il giornale, ma invece di aiutare la consorte a ripulire il pavimento era rimasto seduto, rivolgendo a Linda solo uno sguardo. Scusami, mi dispiace sembrava dire.
Eccola. La nota che stonava col resto della composizione, facendo aleggiare una sensazione d'erroneità che in quel momento parve percepibile solo a Frank.
Non era normale. Suo padre ci teneva al l'unità familiare, aiutava sempre quando poteva dare una mano e soprattutto non sarebbe rimasto immobile nel momento in cui sua moglie avrebbe richiesto un aiuto. E lei non glielo aveva fatto notare, non aveva alzato un secondo gli occhi dal pavimento cosparso di briciole.
Ma quella nota sbagliata doveva essere stata scritta, prima di essere suonata.
La consapevolezza colpì Frank come uno schiaffo: era accaduto sul serio tutto ciò che aveva sognato, nessuna invenzione malsana della sua mente. Improvvisamente il piccolo sorso di caffè sembrò una marea, riempì ogni sua cavità e gli soppresse l'ossigeno nei polmoni, risucchiandogli via tutta l'aria.

Non era stato un incubo.
La piccola, l'unica melodia per lui ancora integra stava per spezzarsi definitivamente.

«Frank. Frank, ti senti bene?» la voce di sua madre attraversò la cortina di echi, riportandolo violentemente alla realtà. Si accorse di avere davanti a lui Linda che lo guardava apprensiva. Stava stringendo la tazza tanto forte che le punte delle dita avevano assunto una tonalità biancastra. «Sei impallidito improvvisamente, forse hai avuto una leggera intoss...»
«Sto bene.» disse secco suo figlio. Forse l'intossicazione l'aveva presa sul serio perché si sentiva lo stomaco tutto attorcigliato, quasi in preda alla nausea. Spostò lo sguardo da sua madre che lo scrutava preoccupata a suo padre, apparentemente distaccato da ciò che gli accadeva intorno. I ricordi della notte precedente tornarono come un secondo schiaffo, costringendolo a poggiare la tazza di caffè sul tavolo onde evitare di rovesciarne il contenuto. Prese un respiro profondo. Respingi tutto in fondo alla mente. «Sto bene.»
La madre aggrottò la fronte ma non proferì parola, si limitò a sedersi accanto a lui e a cercare di parlare con suo marito, ogni tanto lanciandogli qualche sguardo eloquente. Lui cercava di rispondere, ma sembrava più per un obbligo imposto dalla moglie che per piacere di scambiare qualche parola.
Quella conversazione puramente ipocrita fece quasi venire un conato di vomito a Frank, che si alzò di scatto e spinto dall'esigenza di fuggire da quell'atmosfera da casa di bambole biascicò in fretta un devo andare e corse fuori dalla cucina senza fornire alcuna spiegazione ai genitori. In pochi secondi prese lo zaino e scattò fuori di casa, ritrovandosi solo e confuso in preda al vento sferzante dell'autunno da poco iniziato. Forse i suoi genitori lo stavano scrutando dalla finestra, chiedendosi il perché di quel gesto improvviso, ovviamente incoscienti della sua presenza al teatrino della sera prima. Ma Frank, noncurante di eventuali spettatori, rimase in piedi fermo, gli occhi rivolti verso il marciapiede molto metri più in là ed il cappuccio tirato su in fretta e furia. Il suono del silenzio si faceva sempre più opprimente. Ed il suono del silenzio c'era solo quando non si aveva nessuno al proprio fianco disposto a romperlo, quel silenzio.
Frank ci si era abituato alla solitudine, come un'amica un po' gelosa che se ne andava non appena arrivava qualcun altro. Ci aveva sempre convissuto in santa pace, non le era mai pesata come compagnia. Con lei le azioni più semplici erano facili: andare a scuola, mettersi in fila per prendere il vassoio, accordare la chitarra e giù di lì. Ma come una piccola montagna di foglie, messe singolarmente l'una sopra l'altra, il peso di queste singole azioni tutte insieme a volte ti coglieva impreparato, ed in quel momento Frank si sentì oppresso da un vortice di vento freddo, monotonia e solitudine, confusione e sconforto tale da farlo vacillare un attimo. La sua amica lo stava abbracciando un po' troppo forte, sussurrandogli parole all'orecchio che si tramutavano in pipistrelli in poco tempo. Cercava di non ascoltarla, ma rendeva ogni giorno più difficile l'approccio umano, il semplice scambiare due parole che fossero anche solo dei convenevoli. Ogni giorno si aggiungeva inconsciamente una foglia, un mattone, una molecola di vetro alla campana trasparente che quotidianamente, impercettibilmente, lo separava sempre di più, rendendogli anche più difficile una fuga.
Sarebbe stato compito di Gerard, in qualità di psicologo, aiutarlo a scavalcare quel baratro? Avrebbe potuto allontanare da lui una compagnia invadente, magari sostituendola con quella di qualcuno disposto a frantumarla, quella campana?
Frank non lo sapeva.
Sapeva solo che in quel preciso istante, in preda al turbinio di emozioni scomposte e raffiche di vento leggero, riusciva a percepire la sua realtà andare a pezzi.

Dire che la scuola quel giorno per Frank fu estenuante equivaleva all'affermare che nel ventesimo secolo la Germania era stato un paesello pacifico e nevoso.
Ci provava sul serio a stare attento, a decifrare numeri e parole impresse sulla lavagna e a prendere appunti, ma ogni volta che prendeva in mano la penna la scena della sera precedente si impadroniva della sua mente, costringendolo a mollare la penna sul banco e massaggiarsi le tempie ripetendo non sei lì, non sei lì ora.
E poi doveva essere onesto con se stesso: molte famiglie si scioglievano con un divorzio, poteva benissimo capitare.
Ma non riusciva proprio a capire perché dovesse accadere proprio a lui.
Quando l'ultima campanella suonò Frank tirò un sospiro di sollievo. Per quel giorno la tortura era finita. Raccattò velocemente i fogli con parole mezze scarabocchiare sparpagliati sul banco e li ficcò nello zaino, praticamente correndo verso l'uscita. Sapeva benissimo dove andare, non tanto perché glielo avesse ricordato sua madre, ma più perché ne sentiva quasi una necessità. Voleva vedere Gerard, i suoi lineamenti fini, voleva sentire la sua voce particolare sussurrargli parole di conforto. Lo voleva con sé, disperatamente, in quel momento.
Scese in fretta i gradini d'accesso e svoltò a destra sul marciapiede. Si ricordava la strada, il sabato scorso era passato davanti alla scuola con Gerard e quando gli andava Frank sapeva avere un'ottima memoria fotografica.
Dovette camminare per circa dieci minuti, ma alla fine riconobbe la palazzina il cui piano terra era del tutto occupato dallo studio e ci si diresse, aprendo la porta senza neanche bussare. Donna alzò il viso dal computer, e le sue labbra dipinte di rosa si schiusero in un sorriso. Non c'era nessun altro nello studio, ma sentiva un mormorio sussurrato di alcune voci.
«Ciao, Frank.» la donna gli rivolse un sorriso cordiale. «Gerard ti sta aspettando. Nella solita stanza.»
Lui la ringraziò sottovoce e camminò verso la porta in legno bianco, fermandosi quando questa fu a pochi centimetri dal suo naso. Alzò il pugno, chiedendosi se avesse dovuto bussare o meno, ma dopo una tacita discussione con se stesso abbassò la mano sulla maniglia e la fece scattare, aprendola.
Gerard era seduto sul tavolo, le mani poggiate sulla superficie di legno e le gambe accavallate penzoloni. Aveva lo sguardo distratto ed una maglietta a righe, il labbro inferiore era arricciato come se fosse pensieroso e muoveva leggermente il capo a ritmo di musica, probabilmente ascoltata tramite gli auricolari ben piantati nelle sue orecchie piccole. Quella visione durò pochi attimi, perché subito il suo sguardo scattò alla porta, a Frank, e le sue labbra si sciolsero in un sorriso.
«Ehi Frank!» Gerard si tolse gli auricolari e balzò giù dal tavolo, scostando di poco la poltrona di velluto dal tavolo. «Siediti pure.»
Senza spiccicare parola richiuse la porta alle sue spalle e lasciò cadere lo zaino di fianco alla poltrona, sedendocisi subito dopo. In tutto questo mantenne lo sguardo basso, rialzandolo quando si era ormai già seduto, incontrando quello di Gerard. Si era seduto anche lui, sulla sedia di fronte, ed ora lo scrutava attento.
«Cosa è successo?» chiese, senza smettere di guardarlo. Era un'impressione di Frank o il suo tono si era fatto leggermente preoccupato?
«Nulla.» rispose lui per abitudine, abbassando leggermente il viso sui suoi jeans scuri. Sapeva di non dover fuggire di nuovo dalle situazioni, ma era più forte di lui. E se poi Gerard avesse riferito a Linda cosa gli aveva detto? Non poteva permetterselo, proprio no.
«Sei sicuro?»
«Sì.»

No. No Gerard che non è tutto apposto. Nulla è al suo posto. La mia vita, la scuola, i miei rapporti. Nulla. Ma non riesco a dirtelo.
Ed ora neanche la mia famiglia. Neanche questa è più al suo posto. Un tassello di puzzle dai bordi affilati, non posso impugnarlo senza farmi del male. E non riesco a fare ordine nel caos, in un disordine che detta una falsa tranquillità.
E no che non va tutto bene.

«Frank.» Gerard sospirò, improvvisamente serio. Frank si ritrovò costretto ad alzare lo sguardo, spinto da quella voce. «Te lo si legge negli occhi, non mentirmi. Non sono un analfabeta, quel linguaggio lo ho studiato e lo so riconoscere. Non ti sto chiedendo tanto. Fidati di me.»
Alla faccia del non chiedere tanto. Frank a malapena si fidava di se stesso, riporre fiducia negli altri era del tutto fuori dal suo vocabolario.
«Non sto nascondendo nulla.» affermò lui con falsa convinzione, quasi per convincersi che era così, che nulla era accaduto e stava lentamente scivolando nella pazzia.
«Normalmente non ti vorrei imporre di parlarne.» proseguì Gerard serio. «Ma c'è qualcosa sotto, e vorrei veramente che me ne parlassi.»
«Non c'è nulla.» ribadì Frank, ma la sua voce s'incrinò nell'ultima sillaba, tradendolo.
«Voglio aiutarti Frank. Al di là del mio lavoro, del fatto che siamo seduti in uno studio di psicologia immerso nel disordine. Al di là di questo io voglio aiutarti. Non solo perché me lo dice il mio lavoro, ma sento qualcosa dentro che mi impone di farlo, di aiutare questo ragazzo con le mani piccole e le felpe grandi, dallo sguardo e gli abiti oscuri che qualche giorno fa ha varcato quella porta. Ci tengo, a offrirti una mano e anche a te.» il ragazzo lanciò uno sguardo alla porta bianca, e Frank seguì titubante il guizzo di quelle iridi verdi. «Ti prego, non avere paura.»
Frank si agitò sulla poltrona, attonito dal discorso di Gerard. Non era abituato all'insistenza, era già tanto se qualcuno arrivava al sei sicuro di star bene? quando si accorgeva dei suoi occhi spenti. E poi Gerard aveva detto che a lui ci teneva, che voleva veramente aiutarlo. Certo, avrebbe potuto benissimo dirgli una bugia solo per spingerlo ad aprirsi, ma il suo tono era stato sincero. Gli era parso che il fiato gli fosse fluito direttamente dal cuore anziché dai polmoni. E le sue emozioni stavano facendo esattamente la stessa cosa. Direttamente dal cuore fino agli occhi però, dove ora premevano per essere mostrate.
«No...» balbettò, le labbra improvvisamente secche. Nessun altra sillaba uscì da queste se non una leggera emissione di fiato. Non poteva cedere, non poteva rivivere tutto.
Spezzoni di scene gli passarono per la mente come un film malmesso: sua madre che rispondeva inviperita a suo padre, una soleggiata domenica di luglio, il suo primo giorno di scuola, suo padre sulla soglia di casa con le lacrime agli occhi, luci stroboscopiche soffocate da nuvole di ghiaccio secco, un dolore soffocante all'addome, voci che urlavano... E attraverso quella cortina di immagini confuse intravedeva Gerard, altrettanto confuso, intento a guardarlo come se fosse in seconda fila a vedere il suo stesso film. Tra due scene intravide le sue labbra sottili schiudersi e muoversi, ma non udì alcuna parola, forse a causa di quel senso di trance che lo opprimeva. Tuttavia, quando sentì qualcosa stringergli la mano chiusa forzatamente a pugno sussultò, tornando alla realtà.
Nelle orecchie percepì come un ronzio. Il suo respiro era accelerato, ma ora la realtà lo circondava e lo tratteneva coi piedi per terra. Avvertendo gli occhi lucidi, spostò titubante lo sguardo sulla sua mano poggiata sul tavolo, e sussultò ancora quando la vide circondata dalle dita affusolate di Gerard. Il ragazzo sentiva la sua mano piccola e fredda contro quella dell'altro, sentiva la pressione che questa esercitava contro la sua pelle pallida, stringendola in una presa rassicurante. Chissà come la mano di Frank si sciolse, rilassandosi, lasciando al palmo di Gerard la libertà di congiungersi al suo, di far passare le dita in mezzo alle sue e di rincuorarlo.
«Non agitarti.» disse Gerard in tono tranquillo, spostando lo sguardo dalle mani congiunte al viso di Frank, ancora intontito. «Se te la senti, ti suggerirei di smetterla di tenerti tutto dentro. Fa male dopo un po'. Ora puoi parlarne liberamente, se lo desideri.»
Frank provò ancora ad obiettare, ma non riuscì a spiccicare parola. E forse perché era ormai diventato troppo, perché credeva di potersi fidare di Gerard, perché le lacrime gli pungevano occhi e gola come vespe impazzite, perché stava stringendo una mano che sembrava volerlo afferrare per tirarlo su dal dirupo, non ce la fece più. E fu così che Frank sbroccò, in un salottino adibito a studio psicologico abbellito da quadri, dipinti dalla stessa mano che stava stringendo. Frank rimosse il freno alla lingua e fece una selezione di parole, una cascata di lettere che si trasformò in frasi, uncini che gli graffiavano la gola, ma il cui liberamento era dopotutto un sollievo.
Raccontò tutto, almeno tutto quanto relativo alla sera precedente. Spiegò come si era svegliato nel cuore della notte, come avesse pensato che ci fossero dei ladri ed invece si era ritrovato testimone di qualcosa molto più grande di lui, ma di cui era un'inconscia pedina. Rivelò le sue emozioni, confidò le sue paure, il tassello di puzzle e la solitudine imminente. Non nascose il dolore, anzi, un paio di lacrime panciute solcarono il suo viso verso la fine, ma non se ne curò. Ormai il tappo del vaso era stato aperto, e per richiuderlo bisognava svuotarlo un po'.

Gerard ascoltò pazientemente tutto il racconto di Frank. Cercò di non interferire mentre lui parlava, si limitava ad analizzare ogni parola, a fare sue le emozioni rivelate dal ragazzo con i capelli scuri. E si scopriva di parte, arrabbiato con chiunque reggesse i fili del destino e avesse deciso di giocargli questo brutto scherzo.
Lo capiva lui, che Frank era fragile.
Poteva sembrare uno distaccato, diverso, a volte fin troppo stoico e sarcastico per provare qualcosa di diverso da un odio per il resto dell'universo (in poche parole, era stata la sua prima impressione), ma nelle quattro o cinque volte in cui aveva avuto a che fare con lui aveva intravisto qualcosa, come il bagliore di una lama argentata sott'acqua, che gli aveva generato un sospetto, facendogli ipotizzare che probabilmente tutto quello fosse solo una copertura per nascondere qualcos altro. E quel comportamento lo aveva studiato, letto su molti libri di testo, ma per la prima volta ci stava avendo a che fare da vicino.
Ed era strano, assistere allo sconvolgimento di quel piccolo cosmo sulle tinte del nero. Si sentiva impotente, stava male per Frank, ed aveva un impellente desiderio di aiutarlo. Non quel tipo di desiderio che provava davanti al suo piatto preferito, ad un regalo inaspettato, neanche quella leggera brama che provava quando voleva baciare Lindsey. No, non era nulla del genere. Era qualcosa di più viscerale e platonico, che andava oltre l'obbligo che svolgeva come psicologo, che lo spingeva a volerlo conoscere. Sentiva che quel ragazzo gli stava entrando dentro come una spina sottopelle, ma non si fermò per levarla. Non si ribellò. Non si ricordò che le schegge non vanno lasciate entrare troppo in profondo, ché poi quando si strappano via fanno male.
Gli aveva teso la mano, aveva voluto offrirgli un appiglio nei limiti delle sue possibilità. E quella mano era stata stretta con tanta disperazione concentrata in cinque dita pallide da non far esitare Gerard neanche un secondo, ora ricambiava la stretta e non esitava a lasciarla. Non voleva lasciarla, sentiva di voler rimanere per sempre con quelle dita intrecciate alle sue, almeno fin quando Frank non si fosse sentito meglio. Ed anche lui si sentiva meglio, nonostante stesse bene anche prima.
Ma con Frank si sentiva meglio, punto.

Frank continuò a parlare come in uno stato di trance, lasciò che le sue parole fluissero dalla mente senza passare dal via prive di alcun freno. Quando si lasciò sfuggire l'ultima sillaba in un sussurro, il silenzio calò tra i due. Ora Frank non sentiva più una sensazione opprimente alla base del petto, ma percepiva quella zona come svuotata. Sì, sentiva come una specie di vuoto al posto del diaframma e dei polmoni, un vuoto non spiacevole, quasi liberatorio. Si chiese come e con cosa lo avrebbe riempito, quel vuoto.
Davanti a lui, Gerard era immobile, l'espressione indecifrabile se non fosse stato per una lieve ruga tra le due sopracciglia scure. I suoi occhi verdi parvero essersi rabbuiati, percorrevano lentamente i lineamenti ancora tesi di Frank. I capelli rossi gli pendevano in ciocche sottili sulla pelle, alcune arrivavano a sfiorargli le labbra che, dischiusesi, presto rubarono il silenzio.
«Mi dispiace Frank.» disse in un solo fiato, ad un volume talmente basso che l'altro pensò quasi di averlo immaginato. Ma non lo aveva immaginato, così come non stava immaginando la mano di lui stretta con la sua. Ci ripensò, e si calmò leggermente di più. «Mi dispiace sul serio.»
«Non è mica colpa tua.» mugugnò mezzo intontito Frank abbassando il viso, la voce leggermente roca per la scena di poco prima. Nonostante il senso di vuoto al petto, nella gola percepiva ancora un groppo doloroso. Sapeva benissimo che con una leggera spinta -considerato l'equilibrio da castello di carte della sua psiche in quel momento- questo sarebbe esploso, trascinandolo ancora con sé.
«E neanche tua. Per questo mi dispiace, che tu non abbia colpe ma debba lo stesso subire il corso degli eventi.»
«Siamo un po' tutti peccatori.» ribatté il moro scrollando le spalle. Sapeva cosa gli faceva veramente male, ancora più male della consapevolezza d'un'imminente distruzione. Gli facevano male le costole, cinte troppo strette dall'abbraccio della sua vecchia amica. «Forse è anche colpa mia.»
«Non dire cazzate. In ogni caso, ora che ne hai parlato ti senti meglio?» chiese apprensivo Gerard, abbozzando un sorriso timido. Frank sentì il suo pollice tracciargli dei cerchi leggeri sulla pelle di carta della mano. Sospirò, e si sentì tremare.
«Non è tanto ciò che è successo a farmi male.» cominciò con voce incerta, dolente. La gola gli si restringeva sempre di più. «Ma il fatto che qualunque cosa potrebbe essermi accaduta, non ci sarà nessuno a rincuorarmi, nessuno che potrò chiamare e con cui confidarmi, non c'è nessuno disposto a farlo.» ora il tono era incrinato e tremava, mentre passava in rassegna gli amici che poteva credere di avere. Mikey? Non erano abbastanza in intimità, assolutamente no, non avrebbe mai fatto la figura del debole davanti a lui. Bob? Lo vedeva un anno sì e due no. Jamia? La aveva appena conosciuta, e nonostante ci provasse una sintonia era azzardato dire che ci fosse già amicizia. Solitudine era l'unica. Solitudine invece c'era. «E la gente continua a puntare il dito, a ridere di te e a farti del male. Perché tanto a loro che cazzo frega? Mica sono le loro vite merdose ad andare in rovina.» a Frank sfuggì un singhiozzo. «E se ne fregano, continuano a sghignazzare. E... mano a mano ti sgretoli. Non sarebbe così brutto farlo avendo la consapevolezza c-che qualcuno sarà disposto a ricomporti, ma quando sai che tanto non c'è ne-nessuno la distruzione si accelera, e fa il doppio più male... E quei conoscenti, n-né loro, né la famiglia, né nessuno riesce a capire che a volte... b-basta solo un abbraccio per far sentire meglio una persona.»
Ora Frank era in preda ad un vero pianto, la prima lacrima gli colò lenta lungo la guancia per poi sostargli sul mento, che asciugò mentre un singhiozzo lo faceva tremare. Tremava come una foglia e si stringeva le ginocchia al petto, sentendosi fragile e vulnerabile come un germoglio appena schiuso, come una persona che ha appena rivelato la sua paura, l'unica cosa che sarebbe capace di confortarlo. Un altro singhiozzo ed un'altra lacrima, e continuava a tremare, le labbra secche leggermente dischiuse e gli occhi strizzati così tanto da far male. In quell'ambiguità di sensi percepì la sua mano scivolare via dalla stretta, in balia della realtà. Si affrettò a nasconderla nella manica e a rannicchiarcisi le ginocchia, asciugandosi le guance e tremando. Era ridicolo, aveva sperato che Gerard gli tenesse la mano, ma ovviamente sembrava solo un ragazzino problematico e lui, alle prime armi, non se la sentiva, quindi era pronto ad abbandonarlo a qualcuno di più competente. Le paranoie già premevano negli angoli della sua mente, scandite da un cigolio di una sedia spostata ed un rumore felpato di passi.
E Frank quasi sussultò quando percepì due braccia avvolgerlo e stringerlo.











A/n
Ho un sonno che le palpebre mi si chiudono da sole, ma dato che non sono soddisfatta se non pubblico rimango alzata fino all'una a scriverlo, molto sensato. (Frank ha tirato tutto fuori e Gerard lo abbraccia, aww)
E va be', sono post crisi MCRX e in astinenza da sonno, che bel mix.

Ah, se pubblicassi una raccolta di one-shot sulla Frerard (perché tanto la mia mente col cazzo che mi lascia in pace) voi le andreste a dare un'occhiata?

Bon, spero il capitolo vi sia piaciuto. Un po' cortino e noioso, ma nel prossimo ci sarà tipo yeee bordello di avvenimenti alla stracazzo quindi sì, ye.
Ho un'insalata di parole in testa per il sonno.
Notte cari //hxpelessaromantic

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