VOGLIO CHE TU SIA MIA

By SilvanaUber

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TERZO E ULTIMO LIBRO DELLA TRILOGIA "SE TI PRENDO SARAI MIA". Primo libro: Se ti prendo sarai mia Secondo lib... More

UN NUOVO INIZIO
VATTENE LONTANA DA ME
IL MONDO NON HA SENSO SENZA DI TE
COMPLOTTI (per un pubblico adulto)
USI E COSTUMI
SONO TORNATO DA TE
SOTTOMESSA A ME
ANNULLAMENTO DI MATRIMONIO
SONO IL TUO PADRONE
DALLA PARTE DI RENUAR
UN'AMICA
LA MIA AMANTE
TRAPPOLA
UNA PENOSA FIGURA
NON SONO UN VILE
PERSUASIONI
PER TE, NADINE!
COME UNA DONNA GUARDA UN UOMO
UNA VISITA INASPETTATA
NON TI AMO... MA
ARRENDITI
NON PUOI MENTIRE PER SEMPRE
QUEL Sì STRAPPATO
CUORI SPEZZATI
ZOE
PRIGIONIERE DI UN'EPOCA
LA PACE PORTA GUERRA
I MIEI STESSI OCCHI
PIANO DI RISERVA
VECCHIE AMICIZIE
IL MIO NOME E' MARY CAMPBELL
LA STORIA PUO' SEMPRE CAMBIARE
NADINE NELLA NOTTE
INFERNO DENTRO
GUERRA E PACE
IL NOSTRO EPILOGO
AD OGNI DOMANDA....
ALEC IN PERSONA PER VOI

SOLO UN PADRE

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By SilvanaUber

POV NADINE

Era insopportabile!

Il dolore partiva dalle cosce, poco più sopra del ginocchio, e si propagava veloce come una macchia d'olio su tela, puntando le reni.

Mi colpiva ad ondate, frustandomi nella sua impietosa violenza, sgomitando tra le mie urla per farsi spazio e pedinando una logica senza senso che mirava solo ad annientarmi.

Ogni volta che il mio corpo cercava di rimuoverlo, per interi secondi venivo risucchiata da un abisso di dolore sconvolgente, durante i quali perdevo la percezione del tempo e di me stessa.

Ad ogni scoccare dei minuti era sempre più difficile tenere unita la testa al senso della realtà. Mi sentivo come se fossi appena stata squarciata in due: la mia mente vagava nel buio più assoluto, annaspando alla ricerca di un sollievo che non riusciva a scorgere. Doveva pur esserci da qualche parte ma era come cercare una candela in una grotta buia, andata a spegnersi centinaia di anni prima. Il senso della realtà invece mi obbligava a percepire il mio corpo contorcersi e divincolarsi mentre due mani rugose cercavano di tenermi ferma. 

Ero intrappolata nella sofferenza più totale, ingabbiata in una cella di dolore la cui porta era stata ermeticamente sigillata. Non avevo via di scampo. Potevo solo affrontare tutto questo a testa alta e ricercare la forza nelle adrenaliniche urla che dalla morte mi spingevano verso la vita.

Era peggio di essere stata colpita da una granata in pieno stomaco; parti di me si frantumavano, si spaccavano, si sbriciolavano e infine tornavano al loro posto. Per poi disintegrarsi e sbriciolarsi di nuovo.

E quindi di nuovo urla. Di nuovo dolore.

Non riuscivo nemmeno a respirare; l'aria era lì, incastrata nella gola, incapace di scendere o salire. Trovava via di fuga solo quando gridavo. Ma poi tornava lì. 

La luce nella stanza si macchiò di nero mentre un'altra ondata di dolore infieriva come una gelida pugnalata alla schiena. Il dolore scomparve di nuovo e l'ossigeno regalò ai polmoni un attimo di tregua.

Quanto tempo era passato? Minuti? Ore? Il dolore continuava ad essere invasivo, non importava in che posizione mi mettessi. Mi azzerava i sensi. Se non fosse stato per i battiti del mio cuore talmente forti da rimbombarmi nelle tempie, non avrei saputo dire con certezza di essere ancora viva.

La mia vista si affinò. All'improvviso tutto fu assolutamente calmo.

"Nadine, ci siete? Dovete respirare. Respirate".

"Dov'è lui?", urlai. "Dov'è?".

"E' qua fuori, mia Signora".

"E allora, porca pu...", mi mangiai l'ultima parola, certa che l'avrebbe sconvolta, e la trasformai in un rantolo. Il dolore stava tornando senza avermi lasciato il tempo di riprendermi. "E allora chiamatelo!".

"Mia Signora, non è appropriato che un uomo entri in questo momento, con voi senza abiti", provò a farmi ragionare quella voce. 

Apparteneva ad un donna, ne ero certa sebbene non riuscissi nemmeno a tenere gli occhi aperti per il tempo necessario a guardarla in faccia. Era arrivata appena i dolori erano diventati così intensi da rendermi incapace di ragionare. Non riuscivo a darle un'età ma a giudicare dalla sua ristrettezza mentale doveva avere su per giù una cinquantina d'anni. Odiavo il tono condiscendente che usava nel parlarmi, odiavo quel dolore insensato e ormai fuori controllo, ma più di ogni altra cosa odiavo Alec per avermi messa in questo pasticcio. 

Le parole con cui mi aveva dato l'addio nel futuro non bastavano a calmarmi. Non mi davano alcun beneficio. Anzi! Volevo che qualcuno mi uccidesse. Anelavo per una morte veloce che mi avrebbe sottratta a quella sofferenza. Volevo che quella donna non mi imponesse neanche un secondo in più di quel dolore.

 "Lo voglio qui. Subito! Adesso!", sbraitai, cambiando posizione.

Il pavimento freddo e duro si scontrò contro le mie ginocchia, sbucciandole, e allungai le braccia in avanti, afferrando la pietra umida della parete con tanta forza da sentirla sbriciolarsi tra le dita.

L'oscurità irruppe nei miei occhi più profonda di prima. Decine e decine di macchie nere che masticavano ogni cosa che riuscissi a vedere e cadevano sul mio corpo con il loro peso insostenibile. Lottai con le palpebre, duellando con la mia forza di volontà per vincere quella battaglia contro l'oscurità, ma la determinazione non era sufficiente. Avevo bisogno di aggrapparmi a qualcosa: un ricordo, una motivazione da cui trarre forza.

E fu a quel punto che ricordai perché stavo soffrendo. Ricordavo la ragione per cui dovevo sopportare quell'agonia ingestibile. Ricordavo che nonostante tutto c'era qualcosa che valeva quella tortura. 

Ci furono passi leggeri, il mormorio e lo spostamento d'aria di una nuova presenza accanto a me. Voltai la testa, alla ricerca del volto che speravo di vedere ma i miei occhi si rifiutavano di mettere a fuoco.

"Come procede?", lo sentii rivolersi alla donna.

"I dolori sono molto forti, mio Signore. Ma Nadine sta affrontando tutto con molto coraggio. Vorrei alleviare la sua sofferenza ma non so come".

"E' normale tutto questo sangue?".

"Non preoccupatevi".

Di cosa stavano parlando? Di che sangue stavano parlando? Perché non riuscivo a vedere? Non era questo ciò avevo studiato all'università. 

La mia mente, annebbiata dal dolore, si rifiutò di trovare una risposta. Tornò vigile solo quando, all'improvviso, contro ogni logica, il dolore raddoppiò di intensità. La parte bassa della mia schiena si incendiò, come se la fiamma di una candela fosse stata depositata direttamente lì, e il mio urlo riecheggiò tra le pareti della stanza. La mia reazione automatica fu di voltarmi e tornare supina. Alcune mani si posarono sulle mie caviglie, tenendole ferme.

Il dolore crebbe, aumentò, raggiunse un apice e si placò. E di nuovo. E ancora. E ancora. Mi masticava dall'interno, creandosi un percorso lungo la spina dorsale. 

I passi si fecero più vicini e sentii una pressione sulla fronte.

"La sua pelle scotta", lo sentii ancora parlare. Era agitato, lo intuii dal tono. Odiavo il fatto che stesse in pena per me.

"E' normale. Spostatevi, per favore".

 Una pressione più leggera sulla mano, un respiro contro la pelle umida di sudore della spalla. "Nadine, amore, mi sentite?".

"Sì", sputai fuori dai denti.

"Ditemi cosa posso fare. Ditemi come posso aiutarvi", implorò.

"Uccidimi", abbaiai. "Dannazione a te, prendi un coltello e uccidimi".

"E'... è normale?", tentennò, tornando a rivolgersi alla donna.

La sentii ridere, lieve. "Di norma, con un dolore simile, voi cavalieri vi uccidereste da soli. Quindi presumo sia normale". Un sospiro bloccò la sua risata, simile ad un sussulto. "Spostatevi. Via, via, via, via".

"Che succede?".

"Guardate".

"Oh Dio, mio Signore".

"Nadine?", mi chiamò la donna. "Nadine, ora! Forza, forza!".

"Brucia!", singhiozzai. "Dannazione! Toglietela!".

Contorsi le dita dei piedi e cercai di vincere contro l'intensità del fuoco con un urlo talmente devastante che mi urticò la gola.

Lo sentii rimbombare a lungo prima che il silenzio calasse nuovamente su di noi. E nella calma, avvertii la sensazione di star riprendendo pian piano il controllo della mente e del corpo. Stavo riguadagnando forza mentre le macchie di oscurità si eclissavano a lato del mio campo visivo, concedendo ai miei occhi di mettere a fuoco ogni cosa.

Sollevai la testa e tutto il dolore divenne un ricordo, confinato nell'angolo più remoto della mia mente. La luce che filtrava dalla piccola finestrella sbatté contro l'asciugamano intriso di sangue che la donna teneva tra le mani. Scoppiai in lacrime, senza freni, allungando piano le braccia per strapparglielo via, ma lei fu più veloce di me e lo ritrasse, per posarmelo qualche secondo dopo contro il petto.

Era caldo, umido del mio sangue, impregnato dello stesso odore che ormai aveva invaso l'intera stanza. Così vivo da annullare in modo indelebile quel ricordo del dolore che aveva trovato asilo nei recessi più nascosti della mia mente. Lo estirpò a forza da dentro di me, sbriciolandolo nell'aria, e a quel punto mi resi conto che, contro ogni aspettativa, sarei stata in grado di affrontare altre cento volte ogni singola pena a cui da ore ero stata sottoposta. 

Altre migliaia di volte, se il risultato di una tale sopportazione sarebbe stato un corpicino così fragile e piccolo che mi si sarebbe aggrappato al cuore allo stesso modo in cui mia figlia stava facendo in quell'istante.

Restai senza fiato quando i suoi piccoli occhi scuri si spalancarono curiosi e sconcertati contro i miei, instaurando un legame che solo la morte avrebbe potuto spezzare. La testolina era leggermente appuntita per lo sforzo di crearsi un varco tra le mia gambe e tuffarsi nel mondo, ricoperta da un leggero strato di capelli chiari e chiazzata in alcune parti da piccoli capillari, andandosi a rompere per la pressione che il mio bacino aveva esercitato contro il suo cranio durante il parto. Sotto lo strato di sangue la pelle era macchiata di liquidi e muco ma si capiva benissimo che era molto chiara, quasi color avorio. Il cordone ombelicale, ancora da tagliare, pulsava contro il mio ventre al ritmo dei battiti dei nostri cuori, sincronizzati alla perfezione. 

Ma non fu quello a lasciarmi davvero senza fiato. Il viso minuto e totalmente proporzionato era indescrivibilmente bello. Più bello ancora del volto di Alec. Ne aveva assunto i tratti, lasciando a me l'onore di donarle la forma degli occhi e delle labbra; era un miscuglio esatto dei suoi genitori.

"Ciao piccolina mia", singhiozzai. "Ciao Zoe".

"Zoe?", chiese la donna. "Che nome particolare. Perché non la chiamate Maria? O Benedetta?".

Strappai via a forza gli occhi dal visino di mia figlia e lo puntai contro la donna che mi aveva aiutata a partorire, comunicandole con la violenza dello sguardo quanto gradissi in quel preciso istante che se ne andasse, lasciandomi sola con Zoe e suo... padre.

La levatrice capì al volo. "Con il vostro permesso tornerò tra qualche istante a lavarvi e sistemare vostra figlia".

"Grazie", bofonchiai, tornando all'opera d'arte che stavo stringendo tra le braccia.

Appena udii la porta chiudersi alle sue spalle, allungai il braccio verso l'uomo che mi aveva aiutata a sopravvivere in questi ultimi mesi, invitandolo ad avvicinarsi.

"Vieni", lo implorai col sorriso nella voce.

Zoe cominciò a piangere: un autentico inno alla vita.

"State bene?".

Sorrisi. "Mai stata meglio. Vieni vicino. Vieni a vedere nostra figlia, Renuar".

Finalmente sono riuscita ad aggiornare. Non odiatemi se dopo questo capitolo deciderete di non aver mai figli. Da mamma posso dirvi che mi aspetto che mio figlio quando sarà abbastanza grande da essere in grado di intendere e volere, mi stenderà il tappeto rosso ovunque cammino, si inginocchierà al mio cospetto ogni sera, e mi osannerà tipo Dea della Luna per il dolore che ho sopportato per farlo nascere. 

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