i run away from my problems

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Dopo non so quante settimane, un'infinità di esami di controllo e un sacco di esercizi per la riabilitazione fisica, la Mollis entra nella stanza di Gus con un sorriso per portarci una buona notizia: "Dal punto di vista medico siamo pronti a dimetterti", ci comunica, entusiasta. 
Lui scoppia a ridere incredulo e si alza di scatto dal letto per abbracciarmi, si lascia scappare un urletto di gioia e poi abbraccia anche la dottoressa, preso da un impeto di gioia.
"Calma, ragazzo mio: c'è un però", lo ferma lei, interrompendo i festeggiamenti e l'entusiasmo generale.

Gus si siede sul bordo del letto e la fissa in attesa che il medico si spieghi meglio.
"Nei casi come il tuo, la prassi dell'ospedale è quella di mandare il paziente in cura anche dal nostro psichiatra: senza il suo via libera, non puoi lasciare l'ospedale".
Vedo il viso di Peep cambiare totalmente espressione, scatta di nuovo in piedi mettendosi davanti alla dottoressa e si oppone con voce ferma: "Cazzo, no, non sono mica un pazzo".
"Lo so, Gustav, non lo sei. Ma certe volte, come nel tuo caso, è fondamentale avere un supporto", spiega la dottoressa, con estrema calma.
"No, non se ne parla proprio".
La Mollis picchietta un dito sulla cartella medica che tiene in mano e stringe le labbra in un'espressione rassegnata: "Non faccio io le regole. Se vuoi essere dimesso, non hai scelta".
Gus scuote la testa e io mi avvicino a lui, gli metto una mano sulla spalla per tranquillizzarlo e farlo ragionare: onestamente non capisco tutta questa ostilità.
"La prima seduta è fissata per questo pomeriggio, Gustav", comunica il medico, prima di girarsi sui tacchi e richiudersi la porta alle spalle, lasciandoci soli.

"Che ti prende?", gli chiedo confusa.
Peep inizia a camminare nervosamente per la stanza: "Non ho la minima intenzione di andare da uno psichiatra. Non possono obbligarmi, è fuori discussione".
"Non capisco quale sia il problema, onestamente".
Sbuffa e si passa una mano tra i capelli biondi che avrebbero bisogno di una nuova tinta: "Una volta sono stato da uno psicologo, ho mollato dopo la prima visita. Non mi servono a un cazzo gli strizzacervelli, nessuno può capirmi, tantomeno gente che ha vissuto la vita sui libri e non ha fatto nient'altro".

Mi avvicino a lui nel tentativo di fargli ridimensionare la questione, anche perché con quello che ha appena detto mi da l'impressione che voglia sentirsi un incompreso: "Gus, ma è esattamente il loro lavoro: sono pagati per cercare di capire quello che hai passato e quello che provi. Se però tu non ti apri perché sei diffidente, non è colpa dei medici. Si tratta solo di una chiacchierata, hai sentito la dottoressa: è di prassi. Potrebbe farti bene".
Lui scuote con insistenza la testa: "No, non ci vado, basta. Il discorso è chiuso".

Dopo qualche secondo, interrompo il gelido silenzio che è calato tra di noi: "Dopo quello che ti è successo, sei davvero convinto di stare bene?".
Mi siedo sul bordo del letto e lo guardo percorrere irrequieto avanti e indietro la sua stanza. So che non vede l'ora di uscire da questo posto e non riesco proprio a mettere a fuoco perché si stia ribellando con tanta forza a questa storia dello psichiatra.
"Non mi vedi? Sto alla grande", risponde lui, allargando le braccia e lasciandosele poi ricadere mollemente lunghi i fianchi. 
"Forse fisicamente ti sarai anche ripreso, ma psicologicamente... Gus, non puoi dirmi che per te è tutto okay, non ci credo".
Lui arresta la sua camminata nervosa e si mette di fronte a me, poi si piega sulle ginocchia per avere il viso alla stessa altezza del mio: "Sto bene, quante volte devo dirtelo? Perché tutti credono che abbia bisogno di aiuto?".

Scuoto la testa contrariata, dopo tutto quello che gli è successo credevo fosse cambiato un po', credevo che avrebbe iniziato ad essere più sincero con se stesso: "Quando la smetterai di impedire alle persone di darti una mano?".
"Non mi serve nessuno, cazzo: sono vivo e sto alla grande. A me questo basta, perché per voi altri non sembra essere sufficiente?".
"Non puoi essere serio, Gus". Mi alzo di scatto e questa volta sono io ad iniziare a percorrere freneticante la camera da cima a fondo.
Lui mi guarda con un'espressione accigliata, così mi spiego meglio: "Proprio quella sera, avevi condiviso su Instagram una cosa...".
Estraggo il cellulare dalla tasca e vado a recuperare dal suo profilo, rimasto inutilizzato da allora, il post a cui mi sto riferendo, poi volto lo schermo nella sua direzione. Lui tiene gli occhi fissi sul display mentre legge con la fronte aggrottata la didascalia che lui stesso aveva scritto molte settimane fa e di cui evidentemente si era dimenticato.

The last thing I wanna do // LIL PEEPDove le storie prendono vita. Scoprilo ora