12. Un fulmine a ciel sereno

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STEVEN

«Non va bene, non va bene per niente. Va rifatto tutto! Su, forza voi due!»

Quella era l'ottava o forse la decima versione che avevamo presentato a Joseph, ormai avevo perso il conto. C'era sempre qualcosa che non andava, il carattere, un elemento grafico sbagliato, i colori usati, le posizioni delle immagini, non gli andava bene nulla. Frustrato gettai sul tavolo la chiavetta contenente i file, non ne potevo più di quell'uomo, dei suoi modi burberi e del suo dire e non dire tra le righe che per lui valevo meno di zero.

«Ehi, com'è andata con Joseph?» chiese Finn con tono esasperato. Sapevamo come stavano le cose: noi due eravamo le ultime ruote del carro e non a caso ci aveva inseriti nello stesso team di lavoro.

«Non riusciremo a portare avanti questo progetto, probabilmente verrà assegnato a un altro gruppo.»

Stanco per le ore di lavoro inutili, mi massaggiai il collo e le spalle, entrambi indolenziti.

«Non ce lo possiamo permettere!»

«Allora dimmelo tu cosa dobbiamo fare, perché io non so più cosa proporre a quel bastardo...»

Respirai lentamente, mentre il mio collega creava un nuovo file su Photoshop, lo ammiravo. Finn si stava dimostrando una persona caparbia e positiva, non potevo dire lo stesso di me. Nelle ultime settimane non avevo raggiunto nessun risultato, l'ispirazione pareva essere rimasta a Portland, nell'azienda di mio padre.

«Che ne dici se cambiamo toni, magari con un verde acqua possiamo ottenere delle soluzioni migliori.»

«D'accordo, proviamo...»

Non avevo voglia di trasmettere il mio malumore anche a lui, così restai in silenzio, annuendo di tanto in tanto, mentre Finn provava diverse combinazioni. A mezz'ora dalla chiusura degli uffici, ricevetti un messaggio da Kristin. Mi chiedeva di passare la serata a casa sua, probabilmente la sua coinquilina non c'era.

«Era la tua ragazza?» domandò il mio nuovo amico irlandese.

«Sì, ha voglia di passare la serata assieme.»

«Sei fortunato, io dovrò trascorrerla con il mio cane e mia madre» affermò apaticamente.

«Vivi ancora con i tuoi?»

«Non esattamente, mio padre si è rifatto un'altra famiglia e mia madre sfoga tutte le frustrazioni su di me. C'è stato un periodo in cui mi sarebbe piaciuto affittarmi un appartamento mio, lontano da lei, ma non ci sono riuscito...» Il suo sguardo divenne a un tratto più cupo, segno che la convivenza con sua madre non doveva renderlo tanto felice.

«Perché non l'hai fatto?»

«Semplice: non posso abbandonarla, lei ha bisogno di me, non me la sento di lasciarla, sapendo dei suoi problemi» replicò tristemente e per un po' mi sembrò di vedere nei suoi occhi paura.

«Mi dispiace» tentai di consolarlo con quelle poche e banali parole, non volevo pronunciare inutili frasi di circostanza, così rimasi in silenzio.

«Figurati, ormai mi sono rassegnato a questo stato e non saprei nemmeno come uscirne» dichiarò arreso.

«Dovresti riprovarci, sono sicuro che tua madre vorrebbe vederti realizzato e non... non in... in bilico.»

«Non lo so, probabilmente dovrei riprovarci come hai detto, ma per il momento non mi sento abbastanza egoista per pensare a me stesso, lei ha bisogno di me.»

«D'accordo, non conosco la situazione e non dovrei intromettermi, ma non credo sia sbagliato essere egoisti a volte.»

Forse quelle mie parole non sarebbero servite a nulla, ma Finn doveva smetterla di sottomettersi. Avevo notato bene in quelle settimane quanto fosse insicuro, ma all'età di ventiquattro anni non poteva continuare a farsi sopraffare dagli eventi e dal volere altrui. Certo, non ero nessuno per biasimarlo, ero il primo che sabotava la propria felicità, ma se potevo aiutare o incoraggiare un amico a fare quel passo in più per uscire da quella condizione di "blocco", non mi sarei tirato indietro...

Quella rosa tra i capelliDove le storie prendono vita. Scoprilo ora