Capitolo 14

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Non corsi verso casa di Jace, come invece avrei fatto quattro anni fa, mi limitai solo a camminare troppo lentamente tra le strade meno conosciute di quel quartiere, entrando in un piccolo parco poco visitato per ammirare la vista del verde e del piccolo lago che donava un'atmosfera romantica a tutta la merda che stavo pensando. 
Continuavo a sfidare me stesso a trattenere le lacrime il più possibile, come se questo avrebbe potuto aiutarmi a non allagare il mio viso, ma perdevo ogni volta ancora prima di provarci seriamente. Le lacrime scendevano velocemente sulle mie gote rosse e incandescenti dalla rabbia, causandomi uno strano contrasto che bruciava sulla mia pelle come a ricordarmi costantemente di quanto sia debole anche dopo quattro anni passati a cercare di dimenticarlo. 
Ero tornato a New York con la voglia di rivederlo, con il desiderio di provare a sistemare le cose, volevo ricominciare da capo, stavo anche pensando di rimanere e ritornare alla vita di prima, con Jace e Magnus a riempire gli spazi vuoti delle mie giornate. Mi odiai per questi pensieri, perché questo rimanevano: immagini astratte nella mia testa che desiderava solo felicità, desideri irrealizzabili che fungevano come cicatrizzante sulle ferite presenti sul mio cuore, o almeno cercavo di renderli tali. 
Se prima l'idea di restare mi entusiasmava e non poco, adesso l'unica cosa che desideravo era tornare a casa mia, a Seattle, tra i miei colleghi che nemmeno erano a conoscenza del mio vero nome e che avrebbero sicuramente reagito male una volta scoperta la verità al mio ritorno. Mi ero convinto di non voler più vivere nella menzogna, volevo essere libero senza dover mentire su qualcosa di tanto importante come la mia stessa identità e non mi sembrava nemmeno corretto continuare a prendere in giro le persone che mi hanno aiutato a dimenticare la mia situazione pietosa anche solo per qualche ora. 

Iniziavano a farmi male le gambe per aver camminato troppo, già indebolite dal dolore e dal tremolio che aveva iniziato ad invadermi una volta uscito da quel bar maledetto. Diedi un rapido sguardo al display del mio telefono che segnava che le nove del mattino erano passate già da qualche minuto. Avevo un'intera giornata davanti e nessun modo per distrarmi da ciò a cui avevo appena assistito, nulla che potesse aiutarmi ad aspettare il ritorno del mio migliore amico senza essere avvolto dall'angoscia. 

Ripensandoci, forse, non mi merito alcun aiuto o consolazione dato il modo altamente egoista in cui lasciai Magnus anni fa senza allargarmi in troppi dettagli, senza fornirgli abbastanza informazioni da motivarlo e, forse, convincerlo ad aspettarmi. Ma, d'altronde, chi ero io per, anche solo, sperare che lui potesse aspettarmi? Io ho deciso di lasciarlo insieme ai miei vecchi ricordi, ho deciso io di tagliare tutti i contatti con lui, nessuno mi ha costretto a farlo, solo il mio immenso egoismo e la voglia di cambiare senza avere legami che avrebbero potuto ostacolarmi. Merito ogni lacrima, ogni singhiozzo e ogni colpo che il mio cuore ora sta ricevendo, incessantemente e dolorosamente. Decisi che sarebbe stato meglio tornare a casa prima di avere un crollo in mezzo ad un parco deserto dove nessuno mi avrebbe trovato; fu così che, lentamente e barcollante, tornai sui miei passi fino ad arrivare davanti alla porta dell'appartamento di Jace, facendo finalmente cedere le mie gambe sotto il peso del dolore e dello sconforto e cadendo sul pavimento di legno. 

Non so quanto tempo rimasi seduto per terra con la schiena appoggiata alla porta d'ingresso, so solo che il suono assordante e improvviso del campanello mi destò dai miei pensieri vuoti tanto in fretta da farmi sussultare spaventato. Prima di aprire la porta controllai dallo spioncino chi fosse e se avessi dovuto per forza aprire o se avessi potuto fingere di non essere in casa; una volta che il mio corpo riuscì a tirarsi su e a guardare dal piccolo buco al centro della porta, i miei occhi si spalancarono e tutti i ricordi, ancora maledettamente freschi, di quella mattina riemersero facendomi male come un colpo di fucile dritto al cuore. 
Avevo visto quegli occhi dal colore indefinito una sola volta ma erano riusciti a imprimersi nella mia memoria in modo permanente e altrettanto fastidioso. 

-Oscar? - esclamai confuso sperando di non aver sbagliato nome.

-Ciao Alexander. - Oh, da quanto non sentivo il mio nome completo, sembrava così sbagliato detto da lui...

Teacher||MALECWhere stories live. Discover now