46. La resa dei conti

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Aurora

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Aurora.

Avevo trascorso quasi un'ora in quella stanza d'ospedale con Ginevra. Ci eravamo promesse che da quel momento in poi nessun segreto ci avrebbe mai potute separare e che saremmo rimaste unite come avremmo dovuto sempre essere. 

Mi rincuorava sapere che oltre a Totò, avrei avuto un'amica fidata dalla mia parte.

Non ci sarebbe stato più nessun rancore o gelosia, solo un sincero legame tra due persone che si volevano bene.

L'orario delle visite era finito troppo in fretta e purtroppo l'avevo dovuta salutare, promettendole che sarei tornata il giorno dopo alla fine delle lezioni. 

Mentre aspettavo che l'autista Carlo passasse a prendermi, il mio pensiero volò a Totò.

Pensavo di trovare qualche suo messaggio, dato che la scuola era finita già da qualche ora, ma la cartella dei messaggi era vuota e il suo ultimo accesso risaliva a quella mattina, dopo avermi dato il buongiorno.

Sapevo che aveva intenzione di parlare a cuore aperto con sua madre, quindi non mi allarmai più di tanto. Poco dopo, come se avessimo avuto una sorta di telepatia mentale, il cellulare vibrò nella tasca dei miei jeans.

Lessi il messaggio da parte di Totò e il mio corpo si irrigidì di conseguenza.

- Amore, ti devo parlare di una cosa importante. Dove sei?

Non persi neanche un secondo e risposi, digitando in fretta le parole sulla tastiera.

- Ero con Ginevra e sono appena uscita dall'ospedale. Che succede?

- Ho parlato con mia madre e se puoi ho bisogno che tu venga qui. Ho un'idea per liberarci di Samuel e di tutta la sua famiglia.

- È arrivato l'autista, ti raggiungo a casa.

Salii nella macchina bianca con i vetri oscurati e riferii l'indirizzo di Totò all'autista. Durante tutto il tragitto la mia mente vagò nel cercare di capire cosa avrebbe potuto dirmi una volta arrivata a casa sua. Sembrava una pazzia, ma sarei davvero stata disposta a dargli tutti quei soldi per pagare il grosso debito che negli anni aveva distrutto la sua famiglia.

Quando fuori dal finestrino vidi una schiera di palazzi tutti uguali intonacati di un grigio smorto e i balconi con le inferriate arrugginite, capii che ero arrivata a destinazione.

Carlo mi guardò perplesso dallo specchietto retrovisore, aggrottando le sopracciglia, ma non ebbe il coraggio di pronunciarsi.

Così parlai io al posto suo, mentre mi sganciavo la cintura di sicurezza.

«Lo so che stai pensando, ma non ho sbagliato. Qui ci abita il mio ragazzo, e di certo non è questo quartiere popolare che lo definisce come persona. Ti richiamo quando finisco, grazie, Carlo» uscii dalla macchina sotto lo sguardo quasi spaventato dell'autista e, dopo aver fatto un passo, mi avvicinai al suo sportello, facendogli abbassare il finestrino. «Ti consiglio di uscire velocemente da questa zona, sai, ho sentito dire che di solito lanciano le pietre alle auto di lusso». 

La Guerra tra di NoiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora