Il ritorno del cacciatore nero

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Mossa uno, correre. Mossa due, cercare di evitare i proiettili. Mossa tre, capire chi diavolo era il nemico.

Rubare il bestiame era diventata un abitudine dopo quasi due mesi di viaggio. Ma a parte la prima volta, nessun altro era mai riuscito a scoprirmi. Ero diventata perfetta, un predatore silente, strisciante, una presenza nell'ombra. E ora, dopo tutto questo tempo, dopo tutti questi pasti... qualcuno riusciva di nuovo a vedermi. Per mia sfortuna, qualcuno con un fucile.

Come era potuto succedere che avessi avuto la sfortuna di beccare l'unico pastore con un fucile di tutta la regione? Anche se, a dire il vero, iniziai a dubitare di aver incontrato un semplice pastore nel momento in cui un proiettile mi colpì la coscia e riuscì a penetrare poco sotto la giuntura con il corpo. Faceva male, un male cane. Più male di come ricordavo facessero i proiettili.

Il sole era tramontato già da una ventina di minuti e una luna pallida e quasi piena si stagliava in un cielo nero come petrolio.

Passi rapidi correvano dietro di me. Mi fermai, ma fu un errore. Vidi la luminosità di un'altra detonazione, udii lo sparo e caddi all'indietro, con la sgradevole sensazione di affogare nel sangue.

Ciò che vidi venirmi incontro era a dir poco sconcertante. La figura nera e alta che avanzava, forte e snella, camminava con una decisione che non ricordavo gli esseri umani avessero. Quello che aveva imbracciato era un fucile, non lo puntava più, se lo teneva come per cullarlo, con la canna rivolta verso l'alto. Non era spaventato da me. Si avvicinava, si avvicinava, sempre di più, quasi un mostro. Non sembrava umano, non era umano, non poteva essere umano, eppure il suo odore... il suo odore mi era conosciuto, mi era familiare. Avevo già respirato il suo odore, avevo toccato la sua pelle, ero sicura di essermi persino stretta al suo petto e di conoscere la sua frequenza cardiaca.

Un antico nemico? Ma chi? I suoi occhi erano scuri come due pezzi di carbone nella notte nera. Mi rialzai, sentendo schizzi caldi sul mio petto. Il proiettile aveva strisciato il mio collo e dalla ferita il liquido scendeva copioso. Sentivo il calore del fuoco. La carne bruciava e pizzicava.

L'uomo che mi aveva sparata si fermò. Era davvero alto. Mi sollevai sulle zampe posteriori e abbaiai con rabbia, sebbene il proiettile dentro la mia carne facesse male per via della pressione sulla coscia.

Lui non ebbe paura. Pensai che gliene avrei fatta, ed anche tanta, se gli avessi mostrato quella che era la mia vera natura. Ma qualcosa mi impediva di trasformarmi: lupo ero e lupo dovevo rimanere.

Poi capii. Argento. I proiettili erano d'argento e stavano agendo sul mio sistema nervoso. Non posso trasformarmi quando l'argento mi infetta il sangue.

D'improvviso l'uomo si inginocchiò. Come al rallentatore sentii il rumore che le sue ginocchia facevano sull'erba. Lentamente, deliberatamente, aprì le braccia.

«Vieni a me» disse.

La sua voce... i suoi toni metallici. La conoscevo. La ricordavo.

Avanzai. La luce illuminò il volto di lui e vidi cicatrici gonfie che gli solcavano la guancia sinistra. Un reticolo folto che si snodava secondo il disegno che le mie dita e i miei denti gli avevano dato. Ero ancora in forma umana quando lo avevo morso. Lo avevo sfigurato per sempre.

Anche allora, come potevo aver creduto che egli fosse umano?

Era il cacciatore, l'unico uomo che mai mi avesse tenuto testa. Mi aveva quasi uccisa e io avevo quasi ucciso lui, quella notte in cui annientai un intero villaggio, in America.

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