«Pronto, Nate? Come stai?» esordisce, la voce squilla decisamente troppo alta.

«Quelli nei camerini non ti hanno sentito, parla più forte» borbotto piegando le maglie attorno al mio braccio.
L'espressione di Daniel, dapprima solare, si rabbuia in un istante.
Anzi, potrei quasi dire sia sbiancato.

«Cosa succede? No, no, Nate, parla lento, non riesco a capirti» dice avviandosi a passo spedito verso l'uscita. Appendo le t-shirt al tubo di ferro e lo imito, seguendolo.
Sembra così allarmato e agitato.

«Ehi, dammi l'indirizzo e arrivo subito. Non ti muovere, sarò subito da te» mi fa cenno di attraversare la strada e andare dall'altro lato. «Non attacco, tranquillo. Nate, ascolta la mia voce e cerca di calmare il pianto.»

Il pianto? Per quale ragione sta piangendo?
Cerco di farmi guardare dal mio amico per scoprire qualche indizio, ma le sue iridi verdi sono puntate lontano e cercano segnali dell'autobus.
Tutto il resto è scomparso.
Non esisto più io, le compere o le persone; solo Nathan e il suo tono disperato che fuoriesce dal microfono del telefono.

«Nate. Nate? Merda, è caduta la linea» impreca feroce e scorre nella rubrica.

«Dani, vuoi dirmi cosa diavolo sta succedendo?» gli domando un po' accorato.
Scuote la testa.

«Non ho capito quasi nulla, solo dove si trova in questo momento, la sua voce andava e veniva. Nathan è sconvolto e... dannazione, se fosse accaduto qualcosa di grave?» Mi guarda e nei suoi occhi leggo la supplica di tranquillizzarlo, di trovare le parole adatte per allietare il suo animo in subbuglio.

Mi passo la lingua le labbra ingoiando.
«In quel caso avrebbe chiamato qualcuno di vicino a lui, magari i suoi genitori. Dani, andrà tutto bene» lo rassicuro con una carezza dietro la schiena.
Cavolo, è sudatissimo.

«Se solo avessi avuto la mia moto, sarei arrivato in poco tempo. Non prende più neppure la linea!» sbraita arrabbiato colpendo con un calcio il palo di ferro che risuona nell'aria.

«Dani, adesso devi stare calmo, proprio come hai consigliato a Nathan. Non puoi magicamente catapultarti da lui continuando a innervosirti, quindi rassegnati e pensa positivo. Andrà bene» dico, stupendo persino me stesso con questo discorso così lungo.

Sono una persona che si agita in fretta quando qualcuno mostra segni di cedimento ma, miracolosamente, ho trovato un briciolo di forza per aiutare il mio amico caduto in quel maledetto nemico chiamato panico.
Daniel annuisce e prende un bel respiro.

«Mi dispiace per le nostre compere» mormora accigliato e io gli batto un colpo sul petto.

«Tranquillo, l'importante è averti dimostrato la mia supremazia per quanto riguarda le scelte stilistiche. Il resto non conta» scherzo cercando di smorzare la cappa di tensione e lui sorride, apprezzando con quel gesto il mio tentativo di farlo stare meglio.
Non appena arriva l'autobus ci sediamo nei nostri usuali posti in fondo. Il mezzo è stranamente silenzioso e vuoto, il solo rumore oltre a quello del motore è la cover del cellulare di Daniel che lui stacca e riattacca in un ciclo continuo.

Va bene, più di tranquillizzarlo a parole non so cosa fare.

Fisso fuori dal finestrino e osservo il paesaggio sfilare con dolcezza, le fronde colorate e fresche di un verde scintillante.
Neppure due settimane e finirà la scuola. Come passa veloce il tempo quando ci si tiene impegnati, quando la vita gira per il verso giusto e non si trascorrono interi pomeriggi a guardare il soffitto a sperare in un domani migliore.
Ho la sensazione che il giorno dell'incontro con Amelia sul pianerottolo sia avvenuto solo ieri, così come i nostri primi discorsi assieme e il suo approccio diretto nel mio vortice di casini.
Al tempo stesso, i mesi sembrano essere trascorsi in un arco temporale vasto e infinito.

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