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Fa caldo, terribilmente caldo. Afferro il bordo superiore della maglia e la allontano dal collo, sento la stoffa appiccicata alla schiena.
Non si tratta di un semplice ripostiglio per le scope: c'è qualcosa, qui dentro, che sprigiona sbuffi di vapore e li butta contro di noi.
Quale ironia.
Prima ero un blocco di ghiaccio, ora sono completamente sudato.
Amelia prova per l'ennesima volta a muovere la maniglia tonda, la tira e la spinge in un vano tentativo di aprire la porta.

E se la sfondassi con una spallata degna di un film? Se la prendessi a calci? Se iniziassi a gridare a squarciagola?
No, devo mantenere la calma.
Questa situazione mi sta facendo uscire di matto, ma devo comunque interpretare una parte: quella del ragazzo tranquillo e ragionevole.
Mi asciugo la fronte e serro la mascella.

Va bene, Damien, forza e coraggio. Ripeto mentalmente il mio mantra: sorridi; parla; sii accondiscendente e non cedere al panico.
Forse sto dimenticando qualcosa. Non so, non riesco a pensare.

Amelia strizza gli occhi e si gira nella mia direzione, ha i capelli incollati alla fronte.
Davanti alla sua confusione più totale tiro giù le labbra mostrandomi sorpreso.
In realtà so bene per quale motivo siamo stati chiusi qui, ed è opera del mio migliore amico. Se avessi Daniel tra le mani, giuro che gli salterei al collo e finirei per strozzarlo.
Ma lui non è qui, e io non posso fare altro che rassegnarmi.

«Mi dispiace, devo avere stupidamente chiuso la porta» mento per farla sentire meglio.
Avere un capro espiatorio fa sempre bene, puntare il dito sul colpevole dissipa ogni dubbio e svia la realtà.

Lei getta la sciarpa in terra e scuote la testa. «Figurati, non potevi conoscere le condizioni della serratura» risponde e sbuffa facendosi aria con la mano.
Non c'è neppure una finestra. Esiste solo uno spiraglio in alto che ha tutta l'aria di essere un condotto di areazione, ovviamente spento e mangiato dalle ragnatele.

Ciliegina sulla torta? Il cellulare non prende.
Possibile che Daniel abbia pensato persino a questo? Un piano diabolico, lo odio terribilmente.
Amelia mi fissa, sembra stia aspettando qualcosa.
Credo abbia parlato, però ero troppo intento a immaginare la testa di quello che dovrebbe essere mio migliore amico infilzata su una picca.

«Come, scusa?» domando asciugando una goccia di sudore sulle ciglia.

«Secondo te qualcuno si accorgerà della nostra assenza?» ripete, forse per la seconda volta.
Vorrei risponderle di sì, lo vorrei davvero.
Tuttavia, sono certo che il nostro caro amico Daniel abbia pensato anche a questo. Avrà inventato un mare di scuse con gli altri, è bravo ad accamparle tanto quanto me.
In effetti, non so chi dei due sia il più esperto.

Sto divagando.
Ho perso la testa?
Sento la vaga idea di volerle dire la verità, ma, appena il pensiero affiora, ci ripenso subito.
Troppe domande, troppe spiegazioni.
Mi limito a stringere le spalle.
Sono di grande aiuto in una situazione del genere, davvero.

Lei solleva da terra una piccola borsetta di feltro e me la sventola davanti.
Non l'avevo notata.

«Per fortuna, non vado mai via senza questa. Mia madre dice che sono esagerata, mi rimprovera di pensare sempre al peggio.» Estrae una bottiglietta piccola di acqua: «penso sempre al peggio, eppure in questo caso potrebbe salvarci la vita» sorride svitando il tappo di plastica.

Salvarci la vita. Brindiamo all'ottimismo.

Beve un piccolo sorso e me la porge. «Potremmo far finta di essere naufragati su un'isola. Be' no, forse no. In molti casi i naufraghi non vengono tratti in salvo» mormora tra sé e sé e si imbroncia.
Insomma, se la suona e se la canta.

Scuoto la testa declinando l'offerta. Non mi piace bere dove hanno posato le labbra anche altri.
Corruga la fronte. «Qual è il problema?» domanda non capendo il mio punto di vista.

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