Capitolo 7.

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Nate, scosso ancora dal colpo con cui era stato gettato all'interno del furgone, si rialzò e cercò di riprendersi.
Aveva sentito il soldato parlare la sua lingua. Aveva detto "Questo è forte" , ma cosa significava?

Riprendendo i sensi, si accorse di non essere solo. In quel furgone c'erano altri ragazzi, seduti ordinatamente ai lati. Lo guardavano tutti, dal primo all'ultimo, alcuni con stupore, altri con terrore.

Una voce arrivò dal fondo.
-Ehi Nate! Che cosa hai fatto?-
Era Gilb, che alzandosi gli venne incontro.

Nate ignorò la domanda dell'amico. -Come ci sei finito tu qui?-

-Hai cominciato a correre all'improvviso e in mezzo a tutta quella confusione ti ho perso. Mentre ti cercavo mi hanno preso e mi hanno portato qui. Questi ragazzi -proseguì indicando gli altri presenti nel furgone- mi hanno detto che ci hanno selezionato per lavorare... ai campi.-

Nate sussultò. Ora capiva il perché di quell'affermazione del soldato.

Improvvisamente una scossa li fece barcollare. Il furgone stava partendo.
-Dobbiamo sederci.- affermò Gilb.

I due amici si sistemarono in fondo. Nate aveva ragione quando pensava che li avrebbero messi in un'altra gabbia ancora più piccola.
Ma stavolta era peggio. Erano stati selezionati, come si fa con le cavie da laboratorio, come si fa con gli elementi chimici, o con i cibi.
Loro sarebbero stati le cavie da sfruttare fino all'ultimo per il lavoro, ma per quanto riguarda tutte le altre persone? Le donne, gli anziani e i bambini? Che cosa testeranno su di loro? Nate si rifiutò di cercare una risposta.

Nel raccontare l'accaduto a Gilb, Nate fu pervaso da un profondo senso di malinconia e di rabbia.
Come se non bastasse si sentiva terribilmente in colpa. Lui ci aveva provato a salvare la vita al bambino e alla sua mamma, invece li aveva mandati dritti verso la morte.
Gli tornò in mente il sorriso innocente di quell'infante che gli aveva scaldato il cuore, il primo e unico sorriso che Nate vide sul suo esile volto.
E poi pensò alla madre, come poteva non pensarci? L'immagine della donna che stramazzava al suolo gli occupava la mente, non lasciava spazio a nient'altro.

Dopo neanche venti minuti di viaggio il furgone si fermò. Nate udì due sportelli chiudersi e dei passi battere sul gelido e solido terreno all'esterno.
I portelloni si aprirono, e un abbagliante fascio di luce avvolse i prigionieri, infastidendo le loro pupille ormai abituate al buio.
Nate fece fatica, ma tra il bagliore vide due soldati salire nel furgone.
Questi cominciarono a parlare in tedesco tra di loro, non curandosi di chi avevano di fronte.
Quando l'intensità della luce sembrò attenuarsi, Nate vide che non erano semplicemente soldati, uno di loro era un ufficiale giovane e alto.
Entrambi erano armati di fucile.

L'ufficiale, con una cartellina in mano, disse qualcosa di incomprensibile per Nate, e poi cominciò a fare una serie di nomi.
Ogni volta che pronunciava un nome, seguiva un attimo di silenzio e uno alla volta, i ragazzi presenti all'interno del furgone si facevano avanti dicendo qualcosa di indecifrabile, a Nate parve di capire "Hier".
L'ufficiale andò avanti ininterrottamente, e ad un tratto uno dei ragazzi vicino a Nathan rispose all'appello dicendo -Je suis ici.- ovvero "sono qui."

Nate non seppe perché, ma si sentì sollevato al pensiero di avere un connazionale con lui. Lì erano tutti tedeschi, molti altri italiani, insomma, nessuno con cui potersi confrontare a parte Gilb.

-Nathan Dumont.- disse l'uomo sforzandosi di pronunciare correttamente il nome in francese, ma ciò che venne fuori fu una catastrofe di accenti solidi e freddi come il ferro, e una tonalità tosta tipica dei tedeschi.

Nathan alzò timidamente la mano e non pronunciò alcuna parola, essendo sicuro di essere visto. Il soldato di fianco all'ufficiale arricciò il naso e gli puntò il fucile contro, e con lo stesso disastroso accento del compagno gli chiese -Non hai la lingua ragazzo?-

-Sì, la ho la lingua.- rispose Nathan mantenendo i nervi saldi di fronte alla temibile arma.

Il soldato, indispettito, fece per avanzare verso di lui ma l'ufficiale lo trattenne per il braccio.
-Lascialo stare.- si fece capire l'uomo. Poi riprese a parlare in tedesco, e Nate non colse più nulla, anche se percepiva che si stava ancora parlando di lui.

L'ufficiale proseguì quella sorta di appello e quando finì, tirò fuori dalla giacca una borraccia, si avvicinò lentamente a Nate e gliela consegnò, dicendogli qualcosa nella sua enigmatica lingua.

I due uomini scesero e richiusero i portelloni. Fu di nuovo buio, ma solo per un attimo. Una piccola finestrella nel portellone venne aperta, facendo penetrare una flebile luce, almeno sufficiente per potersi guardare in faccia l'un l'altro.

Nate rimase impietrito, attonito. Guardava l'oggetto che aveva tra le mani come se fosse una bomba.
Non riusciva a capire il perché di quanto era successo.
Scrutò l'oggetto da cima a fondo, per accertarsi che la sua mente non gli stesse giocando un brutto scherzo, per assicurarsi che fosse effettivamente una borraccia.
Alzò lo sguardo e notò che tutti avevano gli occhi puntati su di lui, o meglio, sull'oggetto che aveva tra le mani.

-Ti consiglio di bere velocemente prima che qualcuno di questi ti salti addosso.- disse una voce accanto a lui. Era il ragazzo francese.

Nate non seppe cosa rispondere.

Il francese sembrò leggere chiaramente negli occhi di Nate il suo disorientamento e la sua incredulità.

-Ha detto che meriti di bere perché hai le caratteristiche della razza ariana, e perché non sei un ebreo.-

-Tu lo capisci?-

Il ragazzo annuì. -Ho studiato il tedesco.-

-Che altro ha detto?- intervenne Gilb.

-Al soldato che ti puntava il fucile ha detto che assomigliavi straordinariamente a suo fratello.-

-Capisco.- disse Nate con noncuranza. Non voleva avere la compassione di un tedesco. -Ma non posso bere quest'acqua da solo. Ne darò un pò a tutti, ce la faremo bastare.-

Gli altri prigionieri apprezzarono il gesto d'altruismo di Nathan e bevvero uno dopo l'altro, assicurandosi di non superare i tre sorsi ciascuno che erano stati stabiliti.

Il viaggio riprese e, nel più totale e triste silenzio di chi sa cosa gli aspetta, Nate sprofondò nei suoi pensieri.
Come faceva l'ufficiale a sapere che non era ebreo? E quella lista da dove saltava fuori?
Probabile che fosse la stessa che lo aveva incastrato, oppure i nomi e le informazioni erano stati semplicemente riportati da una lista all'altra. Tutto era plausibile, ma Nate non conosceva i loro sistemi e non poteva sapere come i tedeschi riuscissero a passarsi le informazioni.

Il viaggio durò altre due ore, o forse tre. Nate sentiva di aver perso la cognizione del tempo. Il furgone si fermò, e i portelloni si aprirono, una corrente d'aria gelida inondò i prigionieri. Nate notò che non era più giorno.
Alcuni soldati e lo stesso ufficiale dell'appello li fecero scendere e li misero in fila.
Era come immergersi in una vasca d'acqua ghiacciata. Nate cercò di sopportare lo sbalzo di temperatura.
Vennero scortati da una decina di SS armate fino a un cancello che aveva un'aria tetra e inospitale. Le inferriate ricordavano una rete di filo spinato riprodotta in larga misura.
Le lunghe stanghe di ferro si intrecciavano tra di loro andando a formare dei rombi dalle misure perfette che si estendevano per tutta la superficie del cancello. Quei rombi così ordinati si susseguivano l'un l'altro dal basso verso l'alto, creando quasi un illusione ottica.
Al centro, una porta, anch'essa costituita da rombi, poteva essere distinta dal resto della parete di ferro solo da una scritta posta all'estremità superiore: "Jedem Das Seine."

1943. Tre Passi per Sopravvivere.Where stories live. Discover now