"Lo voglio qui. Subito! Adesso!", sbraitai, cambiando posizione.

Il pavimento freddo e duro si scontrò contro le mie ginocchia, sbucciandole, e allungai le braccia in avanti, afferrando la pietra umida della parete con tanta forza da sentirla sbriciolarsi tra le dita.

L'oscurità irruppe nei miei occhi più profonda di prima. Decine e decine di macchie nere che masticavano ogni cosa che riuscissi a vedere e cadevano sul mio corpo con il loro peso insostenibile. Lottai con le palpebre, duellando con la mia forza di volontà per vincere quella battaglia contro l'oscurità, ma la determinazione non era sufficiente. Avevo bisogno di aggrapparmi a qualcosa: un ricordo, una motivazione da cui trarre forza.

E fu a quel punto che ricordai perché stavo soffrendo. Ricordavo la ragione per cui dovevo sopportare quell'agonia ingestibile. Ricordavo che nonostante tutto c'era qualcosa che valeva quella tortura. 

Ci furono passi leggeri, il mormorio e lo spostamento d'aria di una nuova presenza accanto a me. Voltai la testa, alla ricerca del volto che speravo di vedere ma i miei occhi si rifiutavano di mettere a fuoco.

"Come procede?", lo sentii rivolersi alla donna.

"I dolori sono molto forti, mio Signore. Ma Nadine sta affrontando tutto con molto coraggio. Vorrei alleviare la sua sofferenza ma non so come".

"E' normale tutto questo sangue?".

"Non preoccupatevi".

Di cosa stavano parlando? Di che sangue stavano parlando? Perché non riuscivo a vedere? Non era questo ciò avevo studiato all'università. 

La mia mente, annebbiata dal dolore, si rifiutò di trovare una risposta. Tornò vigile solo quando, all'improvviso, contro ogni logica, il dolore raddoppiò di intensità. La parte bassa della mia schiena si incendiò, come se la fiamma di una candela fosse stata depositata direttamente lì, e il mio urlo riecheggiò tra le pareti della stanza. La mia reazione automatica fu di voltarmi e tornare supina. Alcune mani si posarono sulle mie caviglie, tenendole ferme.

Il dolore crebbe, aumentò, raggiunse un apice e si placò. E di nuovo. E ancora. E ancora. Mi masticava dall'interno, creandosi un percorso lungo la spina dorsale. 

I passi si fecero più vicini e sentii una pressione sulla fronte.

"La sua pelle scotta", lo sentii ancora parlare. Era agitato, lo intuii dal tono. Odiavo il fatto che stesse in pena per me.

"E' normale. Spostatevi, per favore".

 Una pressione più leggera sulla mano, un respiro contro la pelle umida di sudore della spalla. "Nadine, amore, mi sentite?".

"Sì", sputai fuori dai denti.

"Ditemi cosa posso fare. Ditemi come posso aiutarvi", implorò.

"Uccidimi", abbaiai. "Dannazione a te, prendi un coltello e uccidimi".

"E'... è normale?", tentennò, tornando a rivolgersi alla donna.

La sentii ridere, lieve. "Di norma, con un dolore simile, voi cavalieri vi uccidereste da soli. Quindi presumo sia normale". Un sospiro bloccò la sua risata, simile ad un sussulto. "Spostatevi. Via, via, via, via".

"Che succede?".

"Guardate".

"Oh Dio, mio Signore".

"Nadine?", mi chiamò la donna. "Nadine, ora! Forza, forza!".

"Brucia!", singhiozzai. "Dannazione! Toglietela!".

Contorsi le dita dei piedi e cercai di vincere contro l'intensità del fuoco con un urlo talmente devastante che mi urticò la gola.

Lo sentii rimbombare a lungo prima che il silenzio calasse nuovamente su di noi. E nella calma, avvertii la sensazione di star riprendendo pian piano il controllo della mente e del corpo. Stavo riguadagnando forza mentre le macchie di oscurità si eclissavano a lato del mio campo visivo, concedendo ai miei occhi di mettere a fuoco ogni cosa.

Sollevai la testa e tutto il dolore divenne un ricordo, confinato nell'angolo più remoto della mia mente. La luce che filtrava dalla piccola finestrella sbatté contro l'asciugamano intriso di sangue che la donna teneva tra le mani. Scoppiai in lacrime, senza freni, allungando piano le braccia per strapparglielo via, ma lei fu più veloce di me e lo ritrasse, per posarmelo qualche secondo dopo contro il petto.

Era caldo, umido del mio sangue, impregnato dello stesso odore che ormai aveva invaso l'intera stanza. Così vivo da annullare in modo indelebile quel ricordo del dolore che aveva trovato asilo nei recessi più nascosti della mia mente. Lo estirpò a forza da dentro di me, sbriciolandolo nell'aria, e a quel punto mi resi conto che, contro ogni aspettativa, sarei stata in grado di affrontare altre cento volte ogni singola pena a cui da ore ero stata sottoposta. 

Altre migliaia di volte, se il risultato di una tale sopportazione sarebbe stato un corpicino così fragile e piccolo che mi si sarebbe aggrappato al cuore allo stesso modo in cui mia figlia stava facendo in quell'istante.

Restai senza fiato quando i suoi piccoli occhi scuri si spalancarono curiosi e sconcertati contro i miei, instaurando un legame che solo la morte avrebbe potuto spezzare. La testolina era leggermente appuntita per lo sforzo di crearsi un varco tra le mia gambe e tuffarsi nel mondo, ricoperta da un leggero strato di capelli chiari e chiazzata in alcune parti da piccoli capillari, andandosi a rompere per la pressione che il mio bacino aveva esercitato contro il suo cranio durante il parto. Sotto lo strato di sangue la pelle era macchiata di liquidi e muco ma si capiva benissimo che era molto chiara, quasi color avorio. Il cordone ombelicale, ancora da tagliare, pulsava contro il mio ventre al ritmo dei battiti dei nostri cuori, sincronizzati alla perfezione. 

Ma non fu quello a lasciarmi davvero senza fiato. Il viso minuto e totalmente proporzionato era indescrivibilmente bello. Più bello ancora del volto di Alec. Ne aveva assunto i tratti, lasciando a me l'onore di donarle la forma degli occhi e delle labbra; era un miscuglio esatto dei suoi genitori.

"Ciao piccolina mia", singhiozzai. "Ciao Zoe".

"Zoe?", chiese la donna. "Che nome particolare. Perché non la chiamate Maria? O Benedetta?".

Strappai via a forza gli occhi dal visino di mia figlia e lo puntai contro la donna che mi aveva aiutata a partorire, comunicandole con la violenza dello sguardo quanto gradissi in quel preciso istante che se ne andasse, lasciandomi sola con Zoe e suo... padre.

La levatrice capì al volo. "Con il vostro permesso tornerò tra qualche istante a lavarvi e sistemare vostra figlia".

"Grazie", bofonchiai, tornando all'opera d'arte che stavo stringendo tra le braccia.

Appena udii la porta chiudersi alle sue spalle, allungai il braccio verso l'uomo che mi aveva aiutata a sopravvivere in questi ultimi mesi, invitandolo ad avvicinarsi.

"Vieni", lo implorai col sorriso nella voce.

Zoe cominciò a piangere: un autentico inno alla vita.

Zoe cominciò a piangere: un autentico inno alla vita

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"State bene?".

Sorrisi. "Mai stata meglio. Vieni vicino. Vieni a vedere nostra figlia, Renuar".

Finalmente sono riuscita ad aggiornare. Non odiatemi se dopo questo capitolo deciderete di non aver mai figli. Da mamma posso dirvi che mi aspetto che mio figlio quando sarà abbastanza grande da essere in grado di intendere e volere, mi stenderà il tappeto rosso ovunque cammino, si inginocchierà al mio cospetto ogni sera, e mi osannerà tipo Dea della Luna per il dolore che ho sopportato per farlo nascere. 

VOGLIO CHE TU SIA MIADär berättelser lever. Upptäck nu