Capitolo 24

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Rio de Janeiro, quella notte


Qualcuno si era dimenticato di chiudere le imposte della finestra.

Non so dire il perché, ma fu la prima cosa che notai e su cui il mio cervello di concentrò, come se, fino a un momento prima, non fosse stato occupato da altri pensieri. Neppure ero girata verso quel vetro; anzi, il mio sguardo era puntato di fronte a me, sulla parete opposta a dove stavo io.

Lo sapevo e basta: le imposte della finestra non erano state chiuse e ora, non solo potevo immaginare, ma anche voltarmi e guardare ciò che accadeva fuori.

Eppure non lo feci, rimasi lì, sicura che quella notte non un filo di vento tirava nell'aria estiva e che la luna, a qualunque punto del suo ciclo fosse, emetteva dei raggi, i quali filtravano attraverso la finestra e rischiaravano la stanza. Un cono di luce inframmezzava la forma quadrilatera della camera. La convinzione che l'umidità regnasse incontrastata la notte selvaggia derivava dal fatto che non udivo il familiare fruscio delle foglie degli alberi che attorniavano la fattoria e il grande prato.

C'era silenzio. Ne ero talmente certa che avrei potuto metterci la mano sul fuoco.

Eppure sentivo un rumore, un suono fastidioso, qualcosa che mi faceva male, che mi urtava il petto, lo sterno, la gola. Era come se stessi soffocando, ma ero sicura che i miei polmoni si stessero riempiendo di aria con una certa regolarità, ininterrottamente.

E poi ci arrivai: ero io.

Il rumore che mandava in frantumi quel silenzio pacifico ero io che respiravo, io che ansimavo. I polmoni, il petto mi facevano male perché li gonfiavo a dismisura, come se fossi appena riemersa da un periodo di apnea lunghissimo, in cui l'ossigeno non era arrivato al mio cervello, il quale urlava urgentemente una richiesta di aiuto.

Alla fine abbassai lo sguardo al grembo, su cui le mie mani tremavano in una posizione simile a quella di un povero che chiede uno spicciolo, un pezzo di pane per sopravvivere alla giornata. In corrispondenza di quelle appendici, scorsi l'orlo delle lenzuola a motivi blu e oro che mi coprivano le gambe.

Un pensiero fulminante, qualcosa che mi travolse la mente tanto da far crescere il mio livello di paura alle stelle, mi costrinse a voltare il capo a destra e a sinistra, con frenesia, mentre i miei occhi vagavano per la stanza in cerca di una grata, di una scala, di una pozza d'acqua, di un gatto nascosto dietro a un cartone. Ma del vicolo di New York non vi era alcuna traccia.

L'unico elemento che potevo mettere in relazione era il tempo, il buio oppressore della luce solare, del giorno, sinonimo di notte e di paura per molte persone. A volte, io compresa.

Sapevo di non essere in America, una parte di me era consapevole del Paese in cui mi trovavo, ma quelle pareti non mi erano per nulla familiari; niente in quella stanza mi faceva sentire al sicuro, probabilmente perché il ricordo vivido del sogno da cui mi ero appena svegliata mi rimbombava ancora in maniera chiara nella mente.

Malgrado ciò, sapevo che non era stato l'incubo a destarmi, né la paura provata negli ultimi istanti che ancora mi scorreva nelle vene. Nell'aria c'era ancora il fantasma dell'eco di un orologio a pendolo che batteva l'ora ad occupare lo spazio e io, che a causa del tema protagonista del mio sonno non stavo dormendo molto bene, ne ero stata disturbata.

Mossi una delle mani a coprirmi l'avambraccio nudo, i cui peli erano rizzati, segno che il calore del mio corpo non era in equilibrio con quello dell'ambiente, malgrado quest'ultimo fosse senza dubbio molto caldo e confortevole.

In seguito a un rapido momento di meditazione, constatai che, in contrasto alla parte superiore, quella inferiore del mio corpo era bollente, quasi fosse riscaldata da un termosifone appena acceso. Ma quelle intrecciate ai miei piedi erano delle gambe umane, calde e ispide.

Love the way you live     [PERCABETH]Where stories live. Discover now