Capitolo 2

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New York, Giugno


Due anni dopo.

Avevo cinque anni quando mia madre se ne andò.
Non fu qualcosa di studiato in precedenza, nulla venne programmato o, almeno, lei non si preoccupò di avvisare qualcuno della sua sparizione improvvisa. Perché, diciamolo, non si può decidere di essere stanchi della propria vita tutto d'un tratto: certo, lo scatto che mette in modo il processo di cancellazione del file contenente tutto quello che hai fatto nell'arco di quindici, venti, trent'anni può azionarsi in un momento, ma l'idea è radicata nei tuoi pensieri molto prima che ciò accada, ne sono certa. Quindi, presumo che lei covasse l'idea che poi mise in atto già da molto tempo, ma sicuro come la morte mio padre non ne sapeva nulla e io, anche se fossi stata testimone di qualche segnale, ero troppo piccola per ricordarlo.
Così il giorno prima lei era lì, in cucina la mattina a fare i pancake – era quel genere di mamma che cucinava solo la colazione la domenica – in piedi davanti all'armadio per scegliere il tailleur che più l'avrebbe aiutata a superare la giornata in ufficio, accovacciata accanto al mio letto mentre mi rimboccava le coperte, posando un bacio sulla mia fronte e dicendomi che mi voleva bene; il giorno dopo, invece, non c'era più.
Ironia della sorte, fui io l'ultima a vederla – mio padre, a causa degli orari assurdi che faceva, probabilmente era stato la prima persona che lei non avrebbe mai più rivisto.
Per molti anni non capii perché avesse voluto vedermi per ultima, poi un giorno, non molto tempo dopo che anch'io divenni madre, una mattina mi svegliai con la consapevolezza di aver compreso il motivo: per quanto il suo gesto fosse condannabile e discutibile, il legame che si forma tra una madre e il proprio figlio rimane uno dei misteri più grandi della vita stessa.
Il giorno in cui decise di andarsene era un mercoledì e io ero uscita dall'asilo alle quattro, come sempre. Ero rimasta ferma sull'apice della scalinata che portava al cortile, scrutando con estrema attenzione la folla di genitori che guardavano con un sorriso fiero sul volto i propri figli, i quali correvano loro incontro. Di solito mi univo a quella matassa imbizzarrita di corpi minuscoli, portatori di cartellette più grandi di loro, non appena individuavo la mia mamma, ma quel giorno non accadde: lei non c'era.
Con la coda dell'occhio venni attirata da un movimento sulla destra e mi girai, trovandomi ad osservare il volto sorridente della mia migliore amica di allora, Kelly. Lei infilò brevemente la sua mano nella mia, stringendola nel gesto che facevamo sempre. Non so che fine abbia fatto Kelly... Sinceramente non ricordo nemmeno per quale motivo ci allontanammo l'anno successivo: penso che l'andare in scuole diverse abbia contribuito. Eppure, malgrado ciò, la ricordo ancora come una persona solare, la migliore amica che avessi mai avuto seconda solo a Piper. Ma, dopotutto, eravamo anche più piccole e, a quell'età è difficile stabilire con basi pertinenti se un'amicizia è meglio di un'altra.
«Domani andiamo allo zoo, Annie! Non sei contenta?» mi aveva domandato, gli occhi luminosi e un sorriso contagioso. Il cappellino a pois rosso che portava sempre le era caduto sopra gli occhi oscurandole la vista, finché lei non lo aveva spostato con un gesto automatico, senza mai perdere l'espressione eccitata sul suo volto. Qualche giorno prima era arrivata in classe gridando entusiasta che sua mamma le aveva promesso di portarla allo zoo per vedere gli animali, la sua passione più grande dopo i capellini rossi a pois, e lei aveva subito insistito perché andassi con lei: le nostre madri si erano accordate e, alla fine, io avevo ottenuto il permesso per passare la giornata in compagnia di Kelli.
Con la mano libera tirò la cordicella della bretella dello zaino che teneva sulle spalle per stringerlo, poi lasciò la mia, chinandosi in avanti per darmi un bacio amichevole sulla guancia. Sorrisi di riflesso.
«Ciao Annabeth, ci vediamo domani» disse, ritraendosi e lasciando dietro di sé una leggera fragranza di lillà, profumo che sempre avevo attribuito alle giornate passate a giocare con la corda nel parco.
Senza aspettare una risposta da parte mia, corse giù per le scale impazientemente, ma allo stesso tempo con una certa grazia, finendo dritta tra le braccia accoglienti di sua madre, che la stava aspettando pochi metri più in là. E poi se ne andarono, mano nella mano: fu allora che io ripresi a guardami attorno, consapevole di essere l'unica bambina rimasta nel piazzale. Incredibile come tutte le persone avessero impiegato poco meno di una decina di minuti per sparire all'orizzonte. Le bretelle della cartelletta mi pesavano sulle spalle e il grembiule rosa, indumento obbligatorio imposto dalla scuola, era leggermente più piccolo della mia taglia – recentemente ero cresciuta parecchio in seguito a un periodo di febbre alta – e mi faceva sudare in quel clima settembrino.
Non passò molto tempo prima dell'arrivo di mia madre. La sua figura comparve da dietro al grande pioppo del sentiero che portava alla strada principale, perimetrato da dei fiori gialli che in primavera rilasciavano un profumo così intenso d'attirare uno sciame di api per molte settimane. Teneva il cappuccio del cappotto leggero calato sopra la testa, ma esso non gli copriva abbastanza la testa e così alcune ciocche di capelli castani, molto diversi dai miei, svolazzavano all'indietro, sospinti dal vento. Con una mano teneva i bordi del cappotto, mentre nell'altra portava stretta a sé una busta di cartone, di quelle che ti davano in drogheria in seguito all'acquisto di qualche prodotto piccolo. Con il capo chino e il mento basso, le era comunque impossibile nascondere il bel viso dai lineamenti delicati, ma che cominciava a subire i segni del tempo che passava. Lo si poteva vedere dalla leggera ruga disegnata al centro della fronte, sul lato destro, che diventava più marcata nel momento in cui si trovava a dover risolvere uno di quei problemi complessi a cui il suo lavoro di architetto la sottoponeva molte – troppe – volte.
Si fermò sul primo gradino della scalinata, cinque sotto quello su cui stavo io, e finalmente alzò il volto per guardarmi. Avevo solo cinque anni, non potevo accorgermi che qualcosa non andava solo guardandola: ai miei occhi lei rimaneva la mia mamma, la persona a cui volevo più bene al mondo insieme al mio papà. Forse questo fu uno dei motivi per cui, nel corso degli anni, imparai a studiare le persone prima di fidarmi ciecamente: non avevo mai avuto dubbi che quel fatto avesse condizionato in parte la mia crescita.
Perciò mi ritrovai a fissare i miei stessi occhi grigi, le stesse labbra rosse, lo stesso lineamento del mento. Tutto in me rievocava la sua figura, ad esclusione dei capelli e dello sguardo: quello, senza ombra di dubbio, non poteva che essere diverso.
Non esitai un'istante a fare due gradini alla volta, con una velocità tale che mi sembrò di essere afferrata e poi venir trasportata da un essere dotato di ali.
«Mamma! Sei arrivata, finalmente. Perché sei in ritardo?» cinguettai felice di vederla, ma allo stesso tempo curiosa. Dopotutto, capitava assai di rado che mia madre ritardasse: odiava coloro che non rispettavano l'orario prestabilito a priori e non perdeva mai occasione per ricordarmelo.
Lei mi guardò per qualche istante con un sorriso rassicurante, ma solo allora mi accorsi che i suoi occhi avevano qualcosa di strano, come se fossero distanti, ancora concentrati su qualche sorta di piantina sul tavolo di lavoro nel suo ufficio.
«Scusami, tesoro, ho trovato traffico» disse, passandomi una mano sulla testa. «Su, forza, sbrigati. Dobbiamo andare» aggiunse poi, spronandomi in avanti. Mi porse la busta di carta e dopo, afferrata la mia mano libera con la sua, si avviò nella direzione opposta da dove era arrivata prima.
Non riesco a ricordare bene come fossimo tornate a casa né quanto tempo impiegammo o che percorso facemmo, ricordo solo che a un certo punto mi trovai ferma in mezzo al corridoio che portava alle camere da letto, fissando un paio di valigie vecchio stile, che sicuramente avevano visto anni migliori, poste sull'uscio di casa. Erano palesemente piene e probabilmente molto pesanti.
Per tutta la mia infanzia e l'adolescenza non avevo viaggiato molto, un po' perché mia madre non si fidava ad andare lontano con una bambina piccola ma, sopratutto, a causa del lavoro dei miei genitori che occupava loro la maggior parte del tempo. Eppure anche a cinque anni ne sapevo abbastanza per capire che il contenuto di quelle valigie era molto maggiore di quello necessario per un solo weekend fuori casa.
«Mamma, a cosa ti servono queste valigie?» avevo chiesto a un punto, ancora in piedi in mezzo al corridoio. Con una mano stavo giocherellando con l'orlo dei miei pantaloni, ma la mia attenzione era rimasta puntata solo ed esclusivamente su quell'immagine. Se cercassi di rivivere ora il momento, probabilmente mi sembrerebbe di essere un'osservatore onnisciente, quel genere di punto di vista che viene dato nei film solitamente.
Ignorando la mia domanda, mia madre aveva continuato a camminare dalla cucina alla sua camera da letto, e poi in bagno, con ancora il cappotto indosso. E ciò era strano perché lei era solita togliere gli indumenti da viaggio non appena entrava in casa.
Ascoltai dei rumori e dei tonfi provenire dal fondo del corridoio per qualche minuto finché mia madre non comparve all'ingresso, accanto alle valigie, con un borsone a tracolla, anch'esso ricolmo di abiti e oggetti vari. Lo lasciò cadere a terra e poi, piegandosi sulle ginocchia per essere alla mia stessa altezza, mi fece cenno di avanzare, puntandomi i suoi occhi in faccia.
Non appena ero arrivata abbastanza vicina per sentire il suo calore, lei mi aveva avvolto le braccia intorno al corpo, le mani dietro la schiena, stringendomi a sé in un abbraccio che sapeva di disperazione. E poi con tutta la calma del mondo, aveva preso ad accarezzarmi i capelli partendo dalla nuca fino alle punte, sussurrandomi delle parole che mai nella vita avrei più scordato.
«Immagina un posto lontano, Annabeth, il sole caldo, un grande prato verde e tanti fiorellini colorati, come quello della favola che ti ho raccontato ieri sera a letto. Riesci ad immaginarlo, tesoro mio?»
Sì, riuscivo a vederlo nella mente e sembrava anche un pensiero felice, ma avevo questa strana sensazione che mi aveva obbligato a rimanere concentrata sulla voce di mia madre. Perciò avevo annuito.
«Ci sono anche i cavalli che corrono, mamma?»
L'avevo sentita sorridere, con la guancia premuta sul mio collo e la tempia a contatto con la mia mandibola.
«Certo, amore. Ci sono tanti cavalli che corrono e si divertono tutti assieme» aveva risposto, temporeggiando poi per qualche istante. «La mamma ora ha bisogno di andare in quel posto perché qui sente tanto freddo. Riesci a capirlo, Annabeth?»
Io avevo annuito ancora. Per qualche motivo, poi, i miei occhi avevano preso a lacrimare, silenziosamente, macchiandomi il volto di gocce di rugiada calde. Avevo cinque anni, ma ero una bambina piuttosto sveglia per la mia età e quindi avevo capito quello che stava per fare nel momento in cui avevo visto quelle valigie. Solo il luogo e la durata del suo viaggio mi sfuggivano.
«Shh... Non piangere, tesoro mio. Non ce n'è bisogno, davvero» aveva detto con la bocca vicina al mio orecchio. E poi aveva cominciato a cullarmi avanti e indietro stringendomi a sé e ripetendo con cadenza regolare quel suono, simile al fruscio che produce il muoversi delle foglie degli alberi di Central Park in autunno.
Shh... Shh... Shh...
«Annabeth, arriverà il giorno in cui farai parte di una famiglia tutta tua. Avrai tanti bei bambini con i capelli biondi che amerai più della tua stessa vita e per cui ti sacrificherai, mettendo la loro felicità davanti alla tua. Avrai al tuo fianco un marito che ti sarà fedele e che ti amerà incondizionatamente fino alla fine dei tuoi giorni. Sarai felice, molto felice, te lo assicuro. Sarai tutto ciò che io non sono: una donna forte e coraggiosa, con un cuore grande abbastanza da permettere che niente ti fermerà. Avrai il coraggio di combattere le tue battagli e di vincere, vivendo la tua vita come è giusto che sia, ne sono sicura.» Le sue parole mi entrarono dentro: probabilmente ero troppo piccola per comprendere appieno ciò che mia madre stava cercando di dirmi, ma non ho dubbio di pensare che il suo discorso rimase impresso nella mia mente tanto da condizionare le mia vita per sempre. Quando raggiunsi l'età sufficiente per comprendere, decisi che quel giorno mia madre aveva voluto regalarmi uno dei segreti per cui molte persone avevano sprecato la loro esistenza, andando alla circa di qualcosa che li soddisfacesse, ma senza mai accorgersi che stava proprio davanti ai loro occhi: la consapevolezza di essere vivi. Eppure, malgrado tutto, lo dimenticai in fretta quando lui mi fece quel che fece.
«Ma io voglio essere come te, mamma» avevo mormorato quasi impercettibilmente, ferma nella mia convinzione che lei fosse la persona migliore del mondo. Mamma si era limitata a scuotere il capo sulla mia spalla, stringendomi a sé ancora più forte, come se avesse avuto paura di lasciarmi andare.
Quel giorno non rimase nella mia mente solo per le parole di mia madre e per la sua successiva partenza, ma anche per la nascita del mio sogno di partire e viaggiare, raggiungendo quel bellissimo posto caldo e lontano che accompagnò la mia crescita infantile e buona parte dell'adolescenza. Quando mio padre mi accompagnava a scuola, dal finestrino della sua auto puntavo lo sguardo al cielo, nella speranza di vedere qualche aereo in partenza per una meta esotica. Se era un giorno fortunato le nuvole si spostavano, scoprendo una massa di metallo grigia, la cui forma ricordava vagamente un uccello viaggiatore. Con le sue ali imponenti e il corpo snello, lassù alto nel cielo, l'aereo mi sembrava qualcosa di irraggiungibile, ma allo stesso tempo di essenziale per sfuggire a una vita monotona e banale.
Quel mio sogno era rimasto vivido dentro di me finché la mia, di vita, non si era trasformata in un inferno.
Un inferno di cui, per due anni, non riuscii a trovarne l'uscita d'emergenza.

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