Capitolo 15

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Rio de Janeiro, la sera stessa

Annabeth


Ero innamorata di Percy Jackson.
Io, Annabeth Chase, ero innamorata di Percy Jackson.
Io, Annabeth Chase, figlia di Frederick Chase, ragazza con seri problemi a livello personale, ero fottutamente e irreparabilmente innamorata di Percy Jackson, e niente e nessuno poteva farci niente.
Non so come avessi fatto a raggiungere la camera ostentando un'apparente tranquillità, probabile che mi fossi trascinata da una stanza all'altra con un sorriso stampato in volto e una espressione serena. Dopo un tempo che avevo ritenuto sufficiente, avevo salutato e ringraziato tutti, aiutato Chintia a sistemare quel che era rimasto, e poi, con la scusa di dover chiamare mio padre, ero salita nella mia camera, lasciandomi cadere a peso morto sul letto.
In quel momento stavo fissando il soffitto, con le mani intrecciate sullo stomaco e la faccia una maschera inespressiva. Mi facevano ancora male le guance da tanto che avevo mantenuto il sorriso forzato. Non ero abituata a sorridere così tanto, non se non lo volevo sul serio.
Stavo cercando con tutta me stessa di rimandare ancora una volta l'esame di coscienza iniziato al bowling, arrivato al punto cruciale alla festa, e non giunto alle dovute conclusioni. Ma, dentro di me, sentivo di essere stanca di lottare, di combattere una guerra già persa in partenza. Dovevo arrendermi e seguire il consiglio di Piper: prendere in mano i miei sentimenti e analizzarli con occhio critico. E così feci, finalmente.
Dopo aver avuto quell'incredibile rivelazione, mentre i nostri occhi si incrociavano, ero caduta in stato di shock. Era come se un melone mi fosse caduto sullo stomaco, come se il Titanic fosse affondato una seconda volta, come se il mondo fosse finito.
E il mondo doveva essere arrivato davvero alla fine dei suoi giorni, perché non poteva essere reale quello che provavo. Io non potevo essere innamorata di nessuno, sopratutto non di Percy Jackson!
Lo stesso Percy che all'inizio odiavo con tutto il cuore perché era troppo simile all'uomo che mi aveva fatto del male, ma che con il passare del tempo avevo cominciato ad apprezzare. Ed, evidentemente, anche ad amare.
Okay, stop. Annabeth, fermati un attimo. Ragiona.
Dovevo concentrarmi sui problemi, sulle conseguenze, su ciò che la mia presa di coscienza comportava. Non c'era una sola ragione in tutto l'universo per cui questo potesse e dovesse andare bene. Primo tra tutti perché io ero io, e una reazione amorosa in quel momento sarebbe stata come sventolare davanti al toro già infuriato un foular rosso. Ero mortalmente certa che mi avrebbe portata all'autodistruzione. E io, malgrado tutto quello che mi era capitato, malgrado la sofferenza che ancora mi incasinava la vita, volevo vivere ancora.
Eppure, nel momento esatto in cui ero arrivata alla mia conclusione, per un momento, aveva sentito una pace assolta, un senso di spensieratezza ed eccitazione che, per quanto se ne fossero andate in fretta, non riuscivo a dimenticare. Era come se il mio corpo mi stesse dicendo di accogliere a braccia aperte i miei sentimenti, e di coltivarli, quando, invece, la mente diceva tutto il contrario.
A chi dovevo dare retta? Quale era la cosa giusta da fare? A cosa mi avrebbe portato tutto questo?
Quelle e altre domande mi affollavano la mente, ed erano così tante che sentivo la testa quasi scoppiare. Infilai le mani nella testa, cercando di sostenere tutto il peso di quelle domande, ma fu inutile.
Stavo per impazzire un'altra volta. Mi era già successo altre volte in passato, in particolare dopo aver passato la giornata a ricordare, a pensare, a soffrire. E sapevo di non potercela fare. Non da sola.
Le altre volte c'era mio padre che, sentendomi dalla sua camera, correva nella mia e restava con me finché tutto non passava. In quei giorni prendeva dei permessi dal lavoro.
Ma ora ero centinaia di chilometri distante da New York e non potevo lasciare che mi vedessero così. Avevo promesso a me stessa che il mio passato sarebbe rimasto un segreto, qualcosa da nascondere. Non potevo permettermelo.
Così, cercando di richiamare alla mente le parole di mio padre su ciò che dovevo fare in quelle situazioni, mi misi in posizione fetale, con le ginocchia al petto, il capo chino e le braccia a proteggere la testa.
Respirai profondamente, per evitare di andare in iperventilazione, la reazioni più frequente, e continuai così per qualche minuto, nel più completo silenzio. La camera era in penombra perché, prima di piombare sul letto, avevo chiuso le persiane, preferendo un'atmosfera più tetra che si addicesse al mio stato d'animo.
Stavo ancora respirando lentamente, ma con fatica, quando sentii qualcuno bussare alla porta, che avevo scordato di chiudere a chiave.
-Annabeth?- era lui. -Stai bene?- chiese, poi fece un pausa, aspettando una mia risposa.
Dal tono di voce, sembrava sinceramente preoccupato, come se avesse percepito che mi stavo sentendo male. Eppure ero sicura di non aver fatto alcun rumore, ad esclusione dei miei respiri.
Pregai mentalmente che non decidesse di aprire quella porta, perché non ce l'avrei fatta.
Non avevo né la forza, né la voglia di subire le sue domande. Non potevo permettere che mi vedesse in quelle condizioni, non dopo aver scoperto che provavo qualcosa per lui. Non ce l'avrei fatta a sopportare il suo sguardo di pietà e compassione, perché ero sicura che mi avrebbe guardato in quel modo.
Stavo annegando in un mare di non.
Così, mentre lui abbassava la maniglia e apriva la posta, feci l'unica cosa che sapevo fare, ma che sicuramente l'avrebbe mandato via senza dover parlare. Finsi di dormire.
Ero una maledetta codarda.
Lui si fermò sulla soglia, sentivo il suo sguardo su di me. Sospirò e, quando stavo pensando che se ne sarebbe andato, lo sentii avvicinarsi lentamente, con le scarpe da ginnastica che scricchiolavano sul pavimento.
Passarono dieci lenti secondi, in cui tesi l'orecchio al massimo e pregai che non mi scoprisse. Alla fine, mentre pensavo che il cuore mi sarebbe scoppiato nel petto di tanto che batteva veloce, si chinò lentamente su di me e io non capii più nulla.
Cosa stava facendo? Che intenzioni aveva?
Con una delicatezza degna di una piuma, percepii le sue labbra posarsi sulla mia tempia, a pochi centimetri dalla mia mano che tenevo ancora sulla testa. Il contatto durò all'incirca tre secondi, ma a me parvero ore infinite.
Nel punto in cui mi aveva baciato sentii un formicolio piacevole, che avrei voluto si propagasse in tutto il corpo. Era come se mi avesse toccato un tizzone ardente.
-Buonanotte, Annabeth.- sussurrò quasi impercettibilmente vicino al mio orecchio. Il modo con cui aveva pronunciato il mio nome mi mise i brividi.
Poi, con la stessa delicatezza con cui si era avvicinato, si ritrasse e se ne andò, chiudendo lentamente la porta dietro di sé.
Istintivamente mi portai la mano alla tempia, toccando leggermente dove le sue labbra si erano adagiate e le domande nella mia testa aumentarono, cambiando però la loro natura.
Perché mi aveva baciato? Perché era entrato? Cosa significava tutto ciò?
E ancora.
Cosa voleva da me? Come aveva fatto a capire che stavo male? Provava i miei stessi sentimenti?
Su quell'ultima domanda mi bloccai, con la mente improvvisamente vuota...
No. Era impossibile.

Love the way you live     [PERCABETH]Wo Geschichten leben. Entdecke jetzt