18. Vinculum

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Che cosa diamine ho fatto?, pensai girando per la mia stanza. Avevo appena camminato sul cornicione del mio terrazzo per aiutare il gatto ciccione della vicina che si era incastrato nei tubi della grondaia. Così, senza pensarci, avevo passeggiato in equilibrio a venti metri d'altezza. Era da quattro giorni che mi sentivo un'estranea nel mio corpo. Mi sentivo molto più agile, scattante. Facevo cose che in tutta la vita non mi era mai capitato di fare, come schivare un vaso caduto dal nono piano di un appartamento o prendere cose al volo. Anche Sara aveva notato questa mia agilità e ne rimase alquanto sorpresa, sapendo quanto fossi impacciata. In realtà, a parte l'episodio della macchina saltata e della passeggiata sul cornicione, il resto non sembrava poi così entusiasmante, chi non mi conosceva poteva semplicemente pensare che avessi buoni riflessi, ma io ero certa che non fosse così. Guardando fuori dalla finestra, mi toccai le labbra rimembrando il bacio con Gabriel. Non mi ero più ritrovata nel bianco, nonostante lo desiderassi ogni sera prima di chiudere gli occhi. Appoggiai la fronte al vetro freddo, appannando di poco quello in prossimità del mio respiro.
Cacciatrice..., pensai. Così mi aveva chiamata l'errante donna con uno strano accento straniero. Perché non confine? Tutte le erranti mi chiamavano così, mai nessuno aveva usato un altro modo per definirmi. C'era qualcosa di sbagliato, un'altra incognita da scoprire. La testa mi scoppiava cercando risposte.
"Sara?", la chiamai per farla venire nella mia stanza. Lei spuntò con un barattolo di Nutella in mano ed un cucchiaio in bocca. Sorrisi alla scena.
"Ho bisogno di te", dichiarai risoluta. Mi sedetti sul bordo del mio letto e le indicai la sedia di fronte al computer della mia scrivania.
"È importante che tu mi ascolti bene, senza interrompere e soprattutto senza dare di matto. Ti racconterò tutto", sospirai. Non aprì bocca, ma il suo sguardo non riusciva a nascondere la curiosità. Deglutii impaurita, ma avevo veramente bisogno di lei. Sara mi conosceva meglio di quanto conoscessi me stessa, meglio di quanto mi conoscessero Stefania e Fabrizio Matteis - i miei genitori adottivi. Se c'era qualcuno in grado di aiutarmi a sciogliere il groviglio dentro di me, avrei messo la mano sul fuoco a favore della mia migliore amica.

~

Le raccontai tutto dal principio senza tralasciare nemmeno il più piccolo particolare, la mia voce era bassa ed insicura, ma i miei occhi non avevano abbandonato mai nemmeno una volta i suoi. Sara ascoltava paziente e senza parlare, trasalì leggermente ascoltando la storia di Samuele e degli studenti scomparsi. Spalancò di poco gli occhi quando le raccontai di Michele e del suo risveglio. Quando terminai dicendo degli ultimi avvenimenti - la nuova ritrovata agilità, il salvataggio del bambino e la parola "cacciatrice" che mi stava perseguitando pure nei sogni - lei rimase muta per un bel po' di tempo. Continuava a guardarmi come se non esistessi davvero, per poi risvegliarsi e sussurrare: "L'ho sempre saputo". Corrugai la fronte allibita dalle sue parole, troppo scioccata per dire qualcosa. Volevo urlare, ma non riuscivo nemmeno a trovare la voce.
"Ho sempre saputo che c'era qualcosa di speciale in te!", ripetè quasi strillando, con un bel sorriso. Spalancai la bocca. Mi credeva. Mi credeva davvero. In quel momento, un misto di confusione e sollievo si agitava dentro di me, come se tutto fosse troppo semplice per essere davvero reale.
"Fino all'età di dodici anni...tu sei stata sovrumana", continuò enfatica, gesticolando per rafforzare i suoi concetti, "Ho perso il conto di quante volte mi hai salvata. Ti ricordi il pugno che hai tirato a quella bulletta che mi prendeva in giro? Come si chiamava? Francesca Satti, mi pare, tutti la chiamavano Chicca", ricordò improvvisamente. "L'hai spinta oltre cinque metri! E quella era decisamente molto più grossa di te", elucubrò. "Poi quando sei partita per Praga con i tuoi, sei tornata diversa, un po' meno combattiva, leggermente goffa, ma non ci avevo fatto caso più di tanto", alzò le spalle. Io mi sforzai di ricordare, ma quel nome e quella scena non mi erano per niente familiari. "Alle medie eri la migliore in tutti gli sport, mi ricordo che nessuno al salto era bravo quanto te. Nemmeno i ragazzi", continuò. Un altro vuoto di memoria mi colse alla sprovvista. Io brava negli sport? Forse sulla luna...
"E le lingue...ti ricordi perché hai scelto archeologia all'università?", mi domandò puntando i suoi occhi su di me.
"Perché mi piaceva la storia...", farfugliai, "e le lingue antiche...l'arte", elencai.
"Appunto! Abbiamo fatto il liceo linguistico insieme, ricordi? Non hai mai studiato latino o greco, eppure sembra che la tua mente sia programmata per quelle lingue morte. Hai mai studiato storia dell'arte? O storia e basta?", chiese retoricamente.
"No...", sussurrai sovrappensiero, sapendo che lei non si aspettasse un risposta concreta.
"Infatti", confermò lo stesso, "Non ti sembra una cosa strana? Cioè, io trovo molto...curioso il fatto che tu non abbia dovuto fare il minimo sforzo per queste cose", dichiarò. Continuai a fissarla non capendo dove volesse arrivare. Anche lei aveva scelto il linguistico per poi scegliere infermieristica, perché quella di prendersi cura degli altri era la sua inclinazione, la sua vocazione.
"Aurora, parliamoci chiaro, tu non sei semplicemente portata per queste cose. Non ti è mai risultato facile studiare la storia, perché tu non la studiavi. Tu la conoscevi già", disse. Sbarrai gli occhi alla sua considerazione. Era vero. Io non aprivo nemmeno un libro di storia, adoravo ascoltare le lezioni all'università, ma per me erano racconti che conoscevo a memoria. Tutto mi era chiaro: date, dinastie, nomi, alleanze, trattati. Lo stesso valeva per il latino e per il greco, mi sembrava di conoscerle da sempre, come quasi tutte le lingue romanze.
"Cosa significa secondo te?", le chiesi impaurita.
"Non eri una semplice ragazza prima, non sei un semplice confine ora", lapidò.
Stavo per ribattere qualcosa, ma venni interrotta dal campanello della porta. Guardai Sara, dalla sua espressione spaesata capii che non aveva invitato nessuno. Mi avviai verso la porta sperando di liquidare in fretta i Testimoni di Geova.
"Ciao, sorellina", salutò una voce cristallina.

~

Una bellissima ragazza dagli occhi verdi acqua mi fissava con un sorrisetto fastidioso dipinto sul volto. Gli occhi chiari erano incorniciati da uno spesso trucco nero che fumava fino alle sopracciglia sapientemente disegnate. La pelle pallida e candida era costellata di piercing su tutto il volto: bocca, naso, sopracciglia ed entrambe le orecchie. I capelli, lunghi fino alla clavicola, erano lisci e setosi, di un nero troppo intenso per esser stati naturali. Borchie e vestiti di pelle nera completavano il suo stile lugubre, in netto contrasto con il suo viso d'angelo. Rimasi imbambolata da quella strana ragazza, che dopo un po' entrò in casa guardandosi attorno senza essere stata invitata. La seguii chiudendo piano la porta, lo sguardo di Sara sembrava perplesso.
"Ti sei sistemata bene, vedo", constatò con un risolino. Non avevo più voce, nemmeno per chiederle chi diavolo fosse e perché stesse a casa mia.
"Ma chi diamine sei?", ebbe la forza di chiedere Sara al mio posto. Non ne potevo più di queste novità scomode.
La ragazza goth si sistemò uno zainetto nero sulla spalla e con un sorriso sornione si mise una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
"Io sono Devon", rispose con voce melliflua e seducente. Il sorriso non abbandonò il suo volto. Si diresse verso la cucina e si prese una birra dal frigo. Io e Sara non sapevamo che cosa dire. I nostri sguardi si alternavano prima alla ragazza e poi ai nostri rispettivi visi basiti. Devon riuscì, con mio grande stupore, ad aprire la bottiglia semplicemente con il pollice, senza usare né accendini né apribottiglie. Portando la birra alle labbra disse noncurante: "Molti però mi conoscono come Ignota", e bevve un sorso.
"Ignota?", mi uscì dalle labbra. Mi sentii proprio stupida, non avevo aperto bocca fino ad allora e la prima cosa che domandai fu ripetere il suo soprannome. Lei annuì continuando a bere. Sedendosi sul tavolo, potei notare delle lame - tipo coltelli da caccia - sotto la giacca di pelle. Rabbrividii.
"Sì, mai nessuno è sopravvissuto per raccontare in giro chi fossi", esplicò divertita. Spinsi istintivamente Sara dietro di me e mi allontanai, fissando attenta le sue mani e le armi sotto i vestiti. Rise, una risata profonda e sentita. Mi guardò e fece un dolcissimo sorriso assassino.
"Non avete nulla da temere, non sono una minaccia, non per te", continuò.
"Perché dovremmo fidarci di te?", sibilai in allerta.
"Quia in familia speramus*", rispose complice. La guardai confusa. Mi raggelò il sangue il fatto che sapesse di essere capita solo da me. "Soror mea es, vinculum sanguis habemus. Idem hyacintho sanguine, scilicet**".
E mi sentii mancare.

~traduzione delle parti in latino
Titolo del capitolo: Legame
*perché della famiglia ci si fida
**sei mia sorella, abbiamo un legame di sangue. Stesso sangue blu, precisamente.

Anatema I - The CircleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora