Così, senza pensarci troppo, digitai velocemente la risposta.

Emma: dov'è?

Noah: Se te lo dico, cosa farai?

Emma: dimmelo e lo vedrai

Noah: Il mio consiglio? Lascialo stare...

Quella risposta aggravò di brutto quello stato di ansia, angoscia e frustrazione che mi stava trascinando sempre più giù. Forse Noah aveva ragione, eppure, quando mi inviò la posizione di un posto non troppo lontano da casa dove però non ero mai stata, non persi neanche tempo a uscire.

Arrivata davanti la porta di entrata, non ci misi molto a capire che quello fosse esattamente il tipo di locale in cui nessuna ragazza dovrebbe mai capitare. E, quando entrai, ne ebbi la conferma: facce brutte, indispettite, alterate dall'alcool già alle undici di mattina riempivano quasi tutte le sedie a disposizione dei pochi tavoli.

Se mia madre mi avesse visto camminare là dentro, probabilmente mi avrebbe tolto dal mondo proprio come mi ci aveva messo - almeno così mi diceva sempre da bambina. Ma Ollie era lì dentro e io non lo avrei lasciato perdere come mi aveva suggerito Noah.

Feci un bel respiro senza cercare di badare troppo all'odore pungente e nauseabondo che emanava quel posto e iniziai a cercarlo.

Stonavo come una farfalla intrappolata in un barattolo di scarafaggi e, infatti, cominciai ad attirare gli sguardi indiscreti di quasi tutti i presenti.

Ma non mi importava: dovevo trovarlo.

Ero tentata di rischiare la vita e avvicinarmi a qualcuno per chiedere informazioni, quando i miei occhi si posarono su di lui.

Era seduto al bancone con alcuni bicchieri vuoti posizionati davanti le sue braccia incrociate e poggiate sulla superficie di legno.

Affrettai il passo per annullare la distanza tra di noi e, come mi succedeva sempre perché era una risposta fisiologica involontaria e inevitabile, sorrisi quando lo raggiunsi.

«Ollie». Lo chiamai e mi sentii subito meglio.

Il mio richiamo lo fece voltare e, quando iniziò a squadrarmi da capo a piedi, iniziai a pensare che ci fosse qualcosa che non andava, perché i suoi occhi erano sempre scuri ma quasi assenti.

Ollie si concesse del tempo per scrutarmi, indecifrabile. Poi si alzò e, senza darmi modo di reagire, mi attirò a sé per baciarmi.

La sua lingua premeva violenta contro la mia bocca e la puzza di alcool che emanava il suo alito e perfino il suo respiro era tremendamente fastidiosa.

Riuscii a scansarlo, premendo le mani sul suo petto per allontanarlo.

«Quanto hai bevuto?». Gli chiesi leggermente infastidita.

Ollie tornò seduto prima di sbuffare la risposta. «Tanto». Poi, prese un bicchiere ancora pieno e ne bevve il contenuto tutto d'un sorso.

«Perché sei qua?». Gli domandai mentre lo osservavo chiederne un altro.

«Dove dovrei essere?».

«Ti stiamo cercando tutti».

«Ho preso un giorno di ferie e lo passo come voglio».

«Sono le undici di mattina». Gli feci notare mentre afferrava il bicchiere che gli stava consegnando il barista per scolarsi anche quello.

«Questa è la bettola di merda dove veniva sempre a ubriacarsi il grande Vasyl Macsim. Gli sto rendendo onore». Continuò a parlare senza guardarmi in faccia.

Come le ali di una farfallaWhere stories live. Discover now