Io sono il numero uno

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Quella sera, dopo il mio interessante scambio con Cassandra, arrivò una volante della polizia a chiedere informazioni sull'accaduto e se ci fosse qualcosa da dichiarare. Gli agenti erano in due, parlarono direttamente con la Faure, che li raggiunse fuori. Chiesero anche di vedere Lacroix, ma non ebbero successo, come me d'altronde. Non appena vidi la volante mi precipitai ad una delle finestre che davano sulla scena, mi trascinai dietro anche Christian per farmi da interprete. Da quello che mi disse Christian, i paesani di Yann usavano la lingua francese per colloquiare formalmente, e l'italiano per le chiacchiere quotidiane.

I due agenti avevano più o meno quarant'anni. Fu l'agente Andrea Costa il primo a parlare con la Faure. Disse che uno degli infermieri del Venenata Mens aveva chiamato in centrale per un incidente avvenuto qualche ora prima. La Faure disse che l'incidente era avvenuto ma lo aveva classificato come autolesionismo. Il secondo agente disse di chiamarsi Pierre Duval, lui non era molto convinto delle parole della Faure. A tratti guardava l'ospedale con sospetto. Intervenne specificando che chi aveva chiamato era il figlio di un loro collega di nome Picard. Pensai che il figlio di questo agente di polizia di nome 'Picard' fosse la stessa ape operaia che aveva accompagnato Cassandra in infermeria. Da ciò che l'agente Duval diceva, l'infermiere Henrì Picard aveva chiamato in centrale non sicuro del fatto che ciò che fosse successo era frutto di autolesionismo. Duval sostenne l'ipotesi che qualcun altro avesse fatto del male a Cassandra.

Christian mi guardò, era dall'altro lato della finestra. <Ma non hai detto che tu avevi trovato Cassandra in quello stato?> ero sbigottito quanto lui dalle accuse rivoltemi.

<Sì, e quello che ho detto all'infermiere è la verità. Mi sembra assurdo che quell'idiota di infermiere possa aver pensato che abbia fatto del male a Cassandra. E poi che motivo ne avrei avuto?>

Christian alzò le sopracciglia in senso di approvazione, e si rimise a tradurre per me. <La dottoressa sta dicendo che non c'è alcun motivo di preoccuparsi e che ha la situazione sotto controllo.> poi si rivolse direttamente a me. <Ti sta parando il culo in pratica.> disse.

<Già. La ringrazierò dopo. Tu sapevi che c'era il figlio di un poliziotto qui dentro?>

<Beh... tutti sono figli di qualcuno, non te la scegli la famiglia. E poi, è un paesino così piccolo che tutti hanno un legame di sangue che li unisce ormai. Di sicuro, troverai dei anche cugini di quinto grado qui dentro che indossano la stessa divisa e che hanno lo stesso identificativo sul badge.>

Come aveva detto Christian, la Faure mi stava coprendo il culo, anche se non avevo fatto nulla potevo risultare invischiato nella storia. In fondo, nei bagni non c'erano telecamere e quello stesso giorno avevo avuto un blackout, quindi come fonte non ero così affidabile.

La Faure risolse la questione e liquidò i due agenti. Firmò qualche pezzo di carta e li fece lasciare la proprietà. Io e Christian ci allontanammo dalla finestra come due bambini che avevano finito la loro marachella e ci avviammo verso la sala comune dove avremmo mangiato insieme a tutti gli altri.

Era buffo vedere come Tudor si rimpinzasse di continuo, ed era buffo vedere che Madre rimaneva impassibile non accorgendosi della enorme quantità di briciole che Tudor le lanciava nel piatto per sbaglio. Era bello vedere Cassandra che ci insegnava come arrotolare correttamente degli spaghetti, ed era bello lo sforzo che impiegammo io e Christian provando a farlo correttamente. Quella fu la prima cena tra noi, i cinque soggetti dell'esperimento del Venenata Mens.

Una volta spazzolato tutto il cibo sui nostri piatti ultimammo la cena con qualche chiacchiera. Tudor e Christian si sedettero alla scacchiera nell'angolo della sala e iniziarono una partita. Madre si alzò dal suo posto, e, con stupore da parte di tutti, proferì le sue prime parole dandoci la buonanotte, poi si recò nella sua stanza. Cassandra rimase al tavolo con me per qualche chiacchiera in più, dopodiché anche lei, come Madre, si alzò e andò a dormire. Io mi aggregai al duo di scacchisti. In realtà, mi misi ad osservarli giocare seduto sul divanetto davanti a loro. Nonostante la faticosa partenza, la giornata si era conclusa bene, pensai. Fattasi una certa ora decisi anche io di ritirarmi nella mia camera. Salutai i ragazzi, ma Tudor mi pregò di non andarmene perché gli serviva il mio aiuto per battere Christian; ma gli avevo già spiegato che non gli sarei stato d'aiuto non sapendo nulla sugli scacchi. Christian ribatté che dovevo imparare per forza, almeno le basi. Gli spiegai, ridendoci sù, che per me quel gioco era troppo lungo e complesso, e anche un pò noioso. Mi guardò sbigottito dalle mie parole, come se gli avessi bestemmiato davanti. Continuammo a ridere, e alla fine mi convinsero a restare per vedere l'esito della partita. Tudor rimase deluso da se stesso. Christian lo aveva battuto dopo poche mosse. Cercammo di tirargli sù il morale mentre rimettemmo i pezzi della scacchiera a posto, Christian ne approfittò per spiegarmi i nomi delle singole pedine. Io continuai a ripetergli che tanto era inutile, non li avrei memorizzati e non avrei imparato a giocarci, ma sembrava essere sordo. Una volta finito di sistemare ci salutammo e ognuno andò nella propria camera.

Andai a dormire sereno quella notte, e il mattino dopo fui estasiato all'idea di svegliarmi e iniziare la giornata.

Dopo colazione la Faure ci riunì nella sala comune dove avevamo cenato la sera prima. Aprì il discorso con delle parole di incoraggiamento, poche e concise, come al solito. Poi, si girò verso di me. Si mise le mani nelle tasche del camice e mi sorrise.

<Bene William, vogliamo andare?>

<C-come?> per poco non mi strozzavo con il caffè.

<Sei il primo, avanti. Puoi portarti il caffè se vuoi.> avrei preferito finirlo il caffè, ma non potei dire di no. In fondo l'unica cosa che mi fermava era l'emozione.

Aveva senso, io ero il soggetto numero uno, era logico che avrei aperto io le danze. Seguii la Faure. Gli altri rimasero dietro di noi. Arrivammo alle porte del Paradiso, quelle due porte di diverso colore che avrebbero cambiato la mia vita. Per la prima volta mi ero soffermato davanti alla porta bianca, quella dei 'giocatori'. I miei compagni invece si erano accodati l'uno dietro all'altro dove c'era la porte verde salvia: la stanza degli 'osservatori', come mi piaceva definirla. Mi fermai a guardarli tutti per un attimo, e in quella frazione di secondo avrei voluto dirgli tante cose, come di non giudicarmi o di non osservare troppo. Come se si potesse fare. Volevo chiedergli di essere gentili con me. Volevo anche ricordargli che non era obbligatorio assistere alle sedute altrui e che avrebbero potuto semplicemente girare i tacchi e andare farsi i cavoli loro. Ma non dissi nulla di tutto ciò. Ero realmente spaventato da quello che avrebbero potuto sentire. Non mi era mai capitato di fare delle sedute 'pubbliche'. Era normale la mia agitazione. Di certo non volevo tirarmi indietro, volevo prestare fede al mio stesso giuramento e mi sentivo d'esempio per quelle persone che mi stavano guardando in quel momento. Quindi abbassai la maniglia della porta bianca ed entrai nella stanza. Mi sedetti sullo stesso divanetto su cui avevo visto qualche giorno prima sedercisi la famiglia di Tudor. Mi chiesi se lo sapesse, se sapesse che la sua famiglia era stata qui, sullo stesso divano che stava fissando in questo momento.

Qualcosa mi colpì della stanza. Non essendo mai entrato lì dentro non sapevo cosa aspettarmi, e non avevo mai riflettuto su cosa avrei visto una volta entrato.

Una delle pareti, quella davanti a me, era un intero specchio. Non vedevo gli altri. Vedevo solo il mio riflesso e quello delle spalle della dottoressa Faure, che si sedette su una poltroncina davanti a me. Cercai di mettermi comodo. Feci qualche sospiro.

<Sei nervoso William?> mi chiese lei. Le rivolsi un timido ghigno. <Sì. Sì, un pò lo sono.>

<Non ti preoccupare. Oggi vorrei conoscerti un pò meglio. Me lo concedi?> mi stupì come mi chiese il permesso di conoscermi. Se avessi voluto, avrei potuto dirle di no. In quel momento mi aveva dato la possibilità di scegliere, o di avere un potere su ciò che stava accadendo intorno a me.

Risposi di sì in maniera cordiale, come anche lei aveva fatto con me. <Molto bene. Allora, se mi permetti, avrei un oggetto un pò speciale che ho portato solo per te. > prese una piccola scatola dalla tasca e la aprì mostrandomela. Vidi un piccolo schermo nero e un cerchietto molto sottile ripiegato su se stesso, entrambi i due oggetti erano incastrati dentro del poliuretano scuro. Aprì il cerchietto che era di colore bianco metallico. Notai che sulle punte di quel cerchietto sembravano esserci attaccati due bottoni. Mi spiegò che il cerchietto, insieme a quei due bottoni, erano dei trasmettitori, come dei sensori che rilevavano la mia attività neurale. Quello che fanno è vedere i vari collegamenti che hanno i miei neuroni l'uno all'altro, e lo schermo nero, invece, li registra. Lei poteva vedere in tempo reale ciò che mi frullava nella testa, in pratica.

Mi chiese se potesse mettermi quel cerchietto intorno alla testa. Ero confuso e sorpreso ma nella mia vita avevo fatto di peggio. Mi avvicinai e spostai i miei capelli dietro le orecchie. La Faure mise il cerchietto in modo strano, i due bottoni finali appoggiavano sulle tempie, e la curva del cerchietto girava intorno al retro del mio capo.

<Non mi farà male, vero?> dissi scherzoso.

<Assolutamente no. Immaginalo come una telecamera che guarda i tuoi movimenti quando fai un disegno.>

<D'accordo...>

Dalla piccola scatolina prese il display e lo accese, poi lo rimise nella tasca. Come se non fosse esistito. Mi guardò negli occhi. E poi iniziammo.

<Allora, William, -mi disse sorridendo- perché non mi parli di come sei stato congedato con disonore dall'esercito?> 

ESPERIMENTO MORTALEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora