Io, Alice

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Stavo fissando quelle strisce colorate.
Ero tornato sul pianerottolo difronte alla parete che mi avrebbe indicato dove si trovava la mia stanza. Tra i polpastrelli stringevo la lieve carta della busta che la dottoressa Faure mi aveva dato. Mi aveva lasciato lì dopo che il cerca persone alla sua cinta aveva suonato. Mi disse di aprire la busta con calma e di farmi un giro. Da quel momento erano passati pochi minuti e avevo ancora tra le mani la busta, così decisi di aprirla.
Verde. Tra le mie dita c'era un cartoncino verde.
E verde sia, ripetei tra me e me. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel cartoncino. Mi assalì una forte malinconia, indescrivibile. Seppure in quel momento il mio corpo era lì, su quel pianerottolo, la mia testa era altrove. Riviveva i momenti di poco prima.
<...non ci sarà...>
Le mie dita si strofinarono sui bordi di quel cartoncino che reggevo con delicatezza. La Faure mi disse che Lacroix sarebbe stato impegnato per tempo indeterminato. Da lì a poco avrebbe avuto luogo un convegno di psicoterapia. Lacroix avrebbe tenuto un discorso per presentare gli ottimi risultati forniti dagli esperimenti fatti al Venenata Mens. Così li aveva definiti la Faure: esperimenti. Forse furono quelle poche parole a crearmi un primo pregiudizio di lei. La mia idea di Lacroix si era formata nel tempo, non avrei voluto sfuggire all'idea che mi ero creato nella mente di lui. Una persona colta, responsabile, affidabile e comprensiva, addirittura arrogante per l'eccelsa intelligenza e realista come pochi altri. Una persona del genere non avrebbe mai usato le parole 'seduta' o 'esperimento' davanti ad uno dei suoi pazienti. Qualunque fosse stato il demone ad affliggerlo. Eppure il dubbio mi travolse come un'onda nel mezzo del mare durante una tempesta. Come può abbandonare i suoi protetti così?
Era così che mi sentivo: lasciato in disparte, non preso in considerazione, abbandonato. E in quel momento, a mezza via tra una scala e una parete variopinta, con le dita che sfregavano i bordi di un pezzetto di carta, riconobbi una familiare sensazione.
Il cuore cominciò a battere più forte. Un secondo dopo l'altro. Il respiro era più pesante e le tempie venivano attraversate da spilli ardenti. La vista si annebbiava, e nella sua caligine riuscì a storpiare l'immagine dei lati levigati e affilati del cartoncino verde. Questi iniziarono ad ondulare, ad allungarsi, a stringersi, poi l'intera immagine che stavo guardando si fece più vicina alla mia faccia. Divenne più grande, e ancora, e ancora. Mi stava inglobando.

Tutto ad un tratto si fermò. Il cartoncino non mi stava più avvolgendo. Era lì, tra le mie dita. Ad una trentina di centimetri dalla faccia.

< Ehi. >

Girai leggermente la testa. Rimasi confuso e abbastanza sbalordito da ciò che mi trovai affianco al volto, all'altezza delle orecchie. Due mani erano immobili, anch'esse a pochi centimetri dalla mia faccia. Le vidi, le vidi nitidamente. Non ballavano la hula, le dita non si stavano allungando verso di me più di quanto avrebbero dovuto in natura. Erano lì, ferme.

Quando percorsi con gli occhi chi fosse il proprietario di quelle mani la mia faccia aveva un terribile aspetto di inquietudine.
< Ciao...s...scusa. > un intimorito sacchetto di carne era affianco a me e mi stava rivolgendo il sorriso più spaventato e incerto che avessi mai visto. Il tutto accompagnato da terrificanti occhiaie che gli circondavano gli occhi. Seppure fossero terrificanti gli risaltavano le pupille azzurre.
Non mi erano mai piaciuti gli occhi azzurri, per qualche assurdo motivo non mi imprimevano nessuna fiducia, e poi, mi ricordavano i miei quando mi guardavo allo specchio. Ma lì per lì non ci feci troppo caso. Feci più caso, una volta abbassato lo sguardo, che si trattava del tizio che avevo visto poco prima in palestra. Aveva lo stesso tatuaggio attorno alla vita, e gli stessi pantaloni blu elettrico. Anche se tutta la violenza e la rabbia con cui prima stava trucidando il sacco da boxe sembrarono essersi dissolte in quel pietoso sorriso preoccupato. Guardandolo più da vicino intuì che aveva qualche anno in meno di me, e a causa di quelle tremende occhiaie se li portava abbastanza male.

< C...come hai fatto? > questa fu la prima domanda che gli posi. La prima di tante.
< A fare cosa? >
< Questo, insomma, a... beh, a farmi tornare. >
< Ah. > ritrasse le mani e le portò verso l'asciugamano che aveva appeso al collo. < Ho applaudito. Certo, ero molto vicino al tuo orecchio, quindi, ecco, mi hai sentito. > terminò con una risatina imbarazzata.
< Ok, ma come hai fatto? Di solito non è così che... funziona. >
Prima di rispondere mi guardò leggermente perplesso.
< Ecco, il cervello una volta che si focalizza su... su un determinato oggetto o su una... situazione il... il modo più efficace per distoglierlo da quello stato è sfruttare le capacità percettiva di un altro senso, come l'udito ad esempio. Distrai un senso... con un altro. >
< Impressionante. > quella risposta articolata mi impressionò veramente, il suo inglese era impeccabile.
< Tu, tu sei Christian, giusto? >
< Sì, piacere di conoscerti...> mi porse la mano e ebbi piacere nel ricambiare le presentazioni.
< Sono William, piacere mio. >

Dal ragazzo che avevo visto dietro il vetro della palestra a quello che avevo davanti sembrava esserci un mondo in mezzo. Un mondo diviso in due e un solo sorriso spontaneo mi avevano appena tirato fuori dal buco?

< Siamo vicini di stanza. > mi disse. Lo guardai confuso e poi capì. Alzai la testa verso la parete che era davanti a noi. Verso sinistra si allungavano due lunghe linee, una blu elettrico e sotto una verde intenso. Il mio verde intenso.
< Il cartoncino...> indicò con gli occhi ciò che ancora stringevo tra le punta delle dita.
< Già, a quanto pare. >
< Ti, ti accompagno. Infondo devo andare anche io da quella parte. Ho bisogno di un cambio per la doccia. >
< Certo. >
Rimisi in tasca il cartoncino. Sul momento mi venne in mente che anche io avrei avuto bisogno di un cambio e di farmi una doccia, erano tre giorni che indossavo gli stessi vestiti. Ebbi ribrezzo nel scoprire che il mio puzzo si era fatto strada tra i tessuti della giacca.

Ci incamminammo insieme lungo un corridoio provvisto di libri e mensole. Seguimmo le linee colorate che ci guidavano al nostro fianco. Rimanemmo in silenzio per tutto il percorso. Ad un tratto tacqui. Come se la mia insaziabile sete di apprendimento sulle altre persone si fosse ammutolita. Dopo una decina di metri davanti a noi apparvero due porte di metallo. Una blu, alla mia sinistra, dove terminava la sua linea guida, è una verde, alla fine del corridoio, difronte a noi.
< Io mi fermo qui...> si rivolse a me con ancora le mani strette ai lembi dell'asciugamano appeso al collo. Con il dito indice mi indicò quella che sarebbe stata la porta di camera mia. < Dentro dovresti trovare un promemoria con i dettagli degli orari dei pasti e così via...>
< Grazie.> gli risposi alzando un angolo della bocca. < Anche, anche per prima. >
Mi guardò con quella espressione ancora una volta, alzò leggermente le sopracciglia.

< È Alice, vero? >
< C-come? >
< La tua peculiarità. Alice In Wonderland. >

Quell'intuizione, mi riempì di gioia. Qualcuno sapeva. Qualcuno aveva capito. Gli sorrisi a trentadue denti.
< Ma, ma come hai fatto a capirlo?!>
Chinò la testa e fece un sorrisetto di sottecchi, poi alzò entrambe le spalle per modestia.
< Tra poco serviranno il pranzo. E scusa amico se te lo dico ma...> incrinò le sopracciglia e mi guardò leggermente imbarazzato. <...hai proprio bisogno di farti una doccia.>
Aveva ragione, puzzavo.

Ci lasciammo così. Ognuno entrò nella propria stanza. Vidi Christian appoggiare su un lettore magnetico il suo cartoncino blu, che aveva tirato fuori da una tasca dei pantaloni. Non appena la appoggiò al lettore sulla porta, questo fece una luce bianca e un bip. Poi la porta si aprì. Dopo che entrò nella sua stanza io mi avvicinai alla mia. E feci lo stesso. Avvicinai il mio cartoncino al lettore magnetico poco sotto la maniglia della porta verde che avevo davanti. Anche il mio si accese e fece un leggero bip. Piegai la maniglia e aprì la porta.
La stanza era pulita, limpida, grande e spaziosa. Minimalista oserei dire. Al centro vi era un grande spazio vuoto. A destra, in mezzo alla parete, un letto enorme occupava un quarto della stanza. Le lenzuola erano verdi. Davanti ad esso c'era una scrivania. Ma sopra non c'era nulla, se non una singola penna, la cui estremità si allungava in un filo attorcigliato su se stesso e terminava in un piccolo magnete attaccato alla scrivania. Trovai qualche foglio di carta bianco in un cassetto, al di sotto del tavolo.
La parete affianco alla scrivania si rivelò essere in realtà un armadio a muro. Lo aprì e vidi che all'interno c'erano solo vestiti verdi. Di tutti i tipi, tutti dello stesso verde intenso. Magliette a maniche lunghe, corte, pantaloni e calzoni. Erano tutti appesi. In basso c'era una cassettiera al cui interno trovai scarpe da ginnastica, sempre verdi, calzini, ancora verdi, e mutande. Quelle erano bianche.
< Era seria quando diceva che avremmo indossato solo un colore...>

ESPERIMENTO MORTALEWhere stories live. Discover now