Mutazione

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Il tempo a parer mio ha uno strano senso dell'umorismo. È paradossale il modo in cui sia puntuale nel renderti consapevole di qualcosa solo quando è troppo tardi.

Avrei capito più avanti quanto fossi stato in ritardo nel comprendere la sua storia. Ma come potevo? Come potevo accorgermene prima? Infondo quello era solo l'inizio, almeno lo era per me.

I passi alle mie spalle picchiettavano sul granito bianco del Venenata Mens. La Faure stava facendo da guida turistica alla nuova arrivata. Avevo la costante sensazione, quando la guardavo, che oltre quelle pupille annebbiate ci fosse qualcosa di più. Qualcosa che avrebbe intimorito anche il cacciatore di taglie del diavolo se le avesse guardate troppo da vicino. Ogni volta che mi giravo e guardavo le due figure alle mie spalle che passeggiavano, mi arrivava una scossa di brividi lungo il collo.

'Madre' così voleva che la chiamassimo. Tuttavia la barriera linguistica era imponente. Madre parlava solo francese, e a stento riusciva a comporre una frase decente in inglese. La Faure le parlava in francese dunque non capivo nulla di quello che si dicevano tra loro. Passeggiavamo tra i corridoi della struttura, passammo davanti alla sala comune, ai bagni, alla palestra, all' infermeria e saltammo le altre stanze del tutto secondarie. Nonostante carpissi a mala pena le parole che uscivano dalla bocca della Faure, rimasi con loro. Forse per educazione. Forse perché la figura che si affermava con fierezza alle mie spalle mi incuriosiva.

Tra un andito e l'altro iniziai a cercare Christian. Non lo avevo più visto da quando ci eravamo lasciati sulle scale. Quell'uomo aveva le stesse capacità di un fantasma, appariva e poi spariva in un solo istante. Certo, ne aveva anche l'aspetto. Mi aspettai di trovarlo a dare cazzotti a uno dei sacchi appesi nella palestra, ma non fu così. Era sparito nel nulla. Ci avrei fatto l'abitudine da lì a qualche giorno. Nel frattempo le due donne mi superarono, la Faure stava 'mostrando' le stanze della terapia a Madre. Questa, iniziò a tastarle con una mano, scoprendo le maniglie e i loro battenti. Subito dopo anche lei si trovò in mano una piccola busta bianca. Il suo colore, pensai. Ma cosa ci avrebbe fatto se non poteva vederlo? In quel momento mi convinsi che forse le avevano scritto in braille che colore era, anche se restava il dubbio di come avrebbe fatto a trovare la sua stanza se non poteva seguire le strisce di colore sui muri. Ormai mi ero accasciato alla parete, qualche metro dietro di loro, aspettando che si congedassero in qualche modo. Mentre ero lì, appollaiato, le fissai.

Ad un tratto mi resi conto che qualcosa era cambiato in Madre, sarà stata la sua postura che era meno rigida e fiera. Si tolse gli occhiali neri e chiuse la stecca da non vedenti. Abbassò la testa verso le sue mani, e fu come se le stesse guardando. La cosa mi creò una strepitante curiosità e mi misi a seguire ogni suo minimo movimento di sottecchi. Dopo aver rigirato tra le dita la sua busta alzò la testa verso la Faure, e per un attimo mi sembrò che si stessero guardando negli occhi a vicenda. Poi una vocina sottile si fece avanti. <Merci.> La Faure sembrò andare in brodo di giuggiole. Non ne capivo la motivazione.

La bella dottoressa in camice prese le mani di Madre e le strinse scuotendole su e giù. Il mio francese era pessimo, e questo era ovvio, eppure riuscì a riconoscere alcune delle parole che le stava rivolgendo. Sembrava le stesse chiedendo come si chiamasse. Sul momento mi dissi di no, che avevo capito male. Era impossibile che la Faure fosse così distratta da dimenticarsi il suo nome, che sembrava appena uscito da un film dell'orrore. Tuttavia quella donna di ghiaccio che si era fatta d'improvviso piccola e schiva le aveva risposto con un altro nome.

< Je m'appelle Hanna. > così le aveva risposto. E nonostante le mie impressionanti lacune in francese tutti conoscono la frase 'Je m'appelle...'.

Dunque era così? Si trattava di un disturbo di molteplici personalità quello che affliggeva la donna davanti a me? Non ne avevo la certezza, magari 'Madre' era solo un appellativo con cui si faceva chiamare. Anche se quel pensiero non mi convinceva del tutto. Il modo in cui guardava la Faure nonostante gli occhi pallidi era sconcertante. Impossibile, a dire il vero. Volevo saperne di più. Volevo vederlo da vicino.

Aspettai che la Faure se ne andasse per saziare la mia curiosità. Mi avvicinai a lei. Era immobile davanti alle due stanze della terapia. In una mano reggeva sia la stecca sia gli occhiali, l'altra invece stava sfiorando la porta dello studio, quella in cui avremmo esposto a tutti i nostri demoni.

Mi avvicinai di più e provai a salutarla. Sussultò quando sentì la mia voce alle sue spalle. Voltò il viso, il quale mi parve impaurito. Ero lì, di fronte a lei, cercando di spiaccicare qualche parola in francese ma nei meandri dei miei ricordi non saltò fuori nulla. Quando pensavo al francese mi veniva in mente solo una vecchia e mal conciata insegnante delle medie che mi guardava delusa. L'unica cosa che riuscì a dirle fu : 'Ehi, Je m'appelle Will'. Le proposi un sorriso di benvenuto ma l'unica risposta che ebbi in cambio fu un'espressione tremante. Un'espressione che nella frazione di un secondo si trasformò lentamente di marmo e ghiaccio. Le spalle curve tornarono rigide e ferme. Raddrizzò la testa china e si rimise gli occhiali. Fu come se fosse mutata. Era cambiata in un battito di ciglia e in modo completamente differente. La sua presenza, che poco prima sembrava spaurita, ora era tornata ad emanare un'aurea intimidatoria. Una presenza aspra, e irraggiungibile. Aprì la stecca del tutto prima che potessi aprire di nuovo bocca. Poi si allontanò, voltandomi le spalle, lasciandomi lì su due piedi, come uno scemo.

< Amichevole...> lamentai tra me e me.

Me ne andai dalla parte opposta rimuginando e analizzando quello che era appena successo. Continuai a camminare e finì per accorgermi che Christian era a non molti metri di distanza da me. Si era seduto a gambe incrociate sul pavimento. Andai verso di lui sorpreso di trovarlo lì e in quella posizione. Era perso nella lettura di uno dei tanti libri presenti nei corridoi. Lo salutai trovando subito riscontro, seppur lento. Mi chiese com'era andata la passeggiata. < Non lo so.> gli dissi, < Di certo non è la persona più socievole che abbia mai incontrato. >

< Ah, capisco...> le sue occhiaie risaltavano in maniera brutale con indosso il blu elettrico.

Gli raccontai di come si era svolto il primo incontro e di come mi era sembrata. Poi gli parlai del cambiamento improvviso che mi aveva confuso. Lui assecondò la mia ipotesi sulla personalità multipla, che gli parve la più plausibile spiegazione al comportamento che aveva avuto nei miei confronti e delle prime parole che mi aveva rivolto. 'Loro sono legione'. Quella frase mi rimbombava nella mia mente e faticai nel togliere quel tarlo che mi ostruiva i pensieri.

Ebbi l'intenzione di sedermi per terra con lui, dato che non si era mosso da quando ci eravamo rincontrati, ma lui fece per alzarsi. Anche se sembrò un bradipo nel farlo.

Mise il libro sottobraccio e si stiracchiò.

< Senti, era da ieri che volevo chiedertelo...> gli dissi con un leggero filo di imbarazzo.

< Come mai sei qui? Scusa se mi permetto ma, ecco, tu hai capito subito perché mi trovo qui, ma io non sono ancora riuscito a capire il perché tu sia qui. Posso...chiedere? >

< Oh...> ci mise un paio di secondi a realizzare la domanda che gli avevo fatto, gli stavo chiedendo quale fosse la sua sindrome o il suo disturbo, e non sapevo se avrebbe avuto voglia di rispondermi. Sospirò e guardò il vuoto.

< Se non me lo vuoi dire lo capisco benissimo non sei costret...>

< Ah... no tranquillo.> mi interruppe. < Soffro di una grave forma di insonnia. > finì la frase con una breve risata ironica.

< AH! ECCO SPIEGATO IL MOTIVO DI QUELLE TREMENDE OCCHIAIE! > il mondo mi parve più limpido dopo quella rivelazione e si impietrì di colpo.

<...q...quali occhiaie?>

Christian mi guardò confuso e io lo guardai allibito, quest'uomo si era mai visto allo specchio?

< Quelle...quelle lì.> gli indicai gli occhi con le dita. Iniziò a tastarsi la faccia con i polpastrelli.

< Ah... e, e si vedono molto? > non so come, ma riuscì a trattenere una folle risata. È stata la prova più ardua che avessi mai affrontato in tutta la mia vita.

< No, no. Affatto. >

< Ma, ma prima hai detto che sono tremende...>

< Devi aver capito male. >

Ci incamminammo insieme verso la mensa. Lui continuò a sostenere che aveva capito bene ciò che avevo detto. Io, negai fino alla fine.

ESPERIMENTO MORTALEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora