Capitolo 42. Leather - Tori Amos

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"Vieni qui accanto a me, suoniamo un po', ti va?" papà mi chiamò a sé, allargando un braccio, invitandomi a sedermi accanto a lui. Il suo vecchio Yamaha nero a mezza coda troneggiava nella grande sala di casa sua, come l'assoluto protagonista e sovrano degli umori dei suoi inquilini.

"Va bene, ma solo un pochino, tra poco arriva l'autobus per portarmi in centro a Grandi Sogni."

"Ti ci accompagno io. Sono andato in pensione apposta per te. Per farti da autista!" Mi sorrise, scostandomi il velo dietro la spalla.

Appoggiai la mano destra sui tasti delle note alte, ascoltando il suo accompagnamento, ascoltando gli accordi che partivano lenti, seguendo la scia di una melodia che veniva direttamente dal suo cuore. Cominciai a toccare i tasti delle tonali, sentendo dentro di me l'anima pura dell'armonia che stava nascendo da quell'entità solo nostra, che solo un padre con una figlia riuscivano a sentire insieme.

"Stai ancora a occhi chiusi..." mi rimproverò bonariamente mio padre, senza smettere di suonare.

"Così mi sembra di vedere le note davanti a me." Mi bloccai, riaprendo gli occhi, poggiando la testa sulla sua spalla, e osservandolo suonare ancora, studiando le sue dita che zampettavano incessanti sui tasti come se non sapessero dove andare, ma, allo stesso tempo, sentii che quelle mani, così piene di cose da raccontare, piene di macchie dell'età, sapessero esattamente la direzione che stavano prendendo.

"Succede questo quando hai lo swing nel sangue, ragnetto mio."

"Ce l'hai tu, papà."

"Sì." Bisbigliò, orgoglioso, come se stesse per confidarmi un segreto: "ma evidentemente non sono riuscito a trattenerlo troppo con me." E mi guardò intensamente con i suoi occhi neri e luminosi, prima di continuare: "Emilia Koll. Premio per la migliore colonna sonora. Stento ancora a crederci." Mi circondò le spalle con il suo caldo abbraccio, continuando a suonare con la mano sinistra, mentre la mia mano destra si aggiungeva a quella danza libera ed effimera, che era la nostra musica. Solo nostra. Nei primi giorni, dopo il mio rientro, avevamo guardato la trasmissione della mia premiazione su Raiplay, sgranocchiando patatine ed altre schifezze sul divano. Papà e Teresa erano fieri di me, un velo di orgoglio e malinconia aveva attraversato i loro volti. Li avevo osservati attentamente, dietro il mio, di velo. Avevo solcato le loro espressioni, sforzandomi di smascherarli da quella cortina di tristezza. Ma quel momento era passato in un attimo. Mi ero sentita stringere così forte da sentire il respiro corto dentro i loro corpi.

"Congratulazioni, amore nostro!" Teresa mi aveva baciato dolcemente su entrambe le guance.

Nicla non c'era. Mi aveva videochiamato, certo, la sera dopo la premiazione, ma non aveva lasciato molte tracce della sua emozione nella sua voce.

La sua voce restava limpida, dolce e pura come quella di un angelo. Sentii il suo amore attraversarmi dentro, da uno schermo fatto di milioni e milioni di pixel, i suoi occhi verdi fissi nella videocamera, la bocca socchiusa in un sorriso e gli angoli arricciati e rosa. Accettai quell'amore, così com'era.

Eravamo soli in casa, io e papà, quella mattina: Teresa era uscita molto presto per fare la spesa, dopodiché avrebbe trascorso il resto del giorno ad aiutare Melanie con Giò, forse sarebbero andate un po' in spiaggia.

Melanie era incinta.

Aveva da poco passato la ventesima settimana e stava seriamente pensando di lasciare il suo lavoro per dedicarsi completamente ai suoi figli. Pensai che sarei stata felice per lei, che avrei amato quel nipote o quella nipotina come se fosse un altro figlio mio da accudire.

Il figlio che non avevo mai avuto.

Pensai che l'avrei aiutata lo stesso, nonostante i problemi, nonostante il fatto che con Alex avessero preso una decisione. Si stavano separando, lo avevano annunciato subito dopo la notizia della seconda gravidanza. Ci eravamo molto agitati, al riguardo.

Non potevo capirli, ma conoscevo mia sorella, e conoscevo Alex. Non sarebbero mai arrivati a quella conclusione senza prima averci riflettuto bene e a lungo. Pensai che forse, ad Alex, non gli ero stata molto vicino, negli ultimi tempi; che avrei dovuto parlare di più con Melanie. Convincerla a non cercare un'altra gravidanza proprio nel loro periodo di maggiore crisi. Perché l'avevano fatto? E perché proprio adesso avevano deciso di separarsi, di comune accordo? Non si amavano più? Davvero, non c'era un modo per risolvere la loro situazione?

Avrebbe dovuto interrompere la gravidanza. Questo, avevamo pensato tutti.

Nessuno avrebbe mai potuto capirlo. Nessuno era dentro la loro relazione, non potevamo giudicare, non ci era permesso, anche se umanamente avevamo giudicato.

E lo sgomento che aveva attraversato i nostri occhi, come famiglia, si era subito disteso quando Melanie e Alex, seduti al tavolo, insieme a noi, si erano stretti le mani sopra il tavolo della sala da pranzo, e ci avevano rassicurato che sì, il loro legame era finito da molto tempo, ma che non avrebbero mai smesso di amarsi, di amare Giò sempre di più, e di amare la creatura che stava per venire al mondo. Osservai la serenità negli occhi color nocciola del mio amico, uno spiraglio di speranza che lo aveva pervaso, speranza di una vita più felice. Mi ero portata la mano al mento, poggiando la schiena alla spalliera della sedia, e giocherellato un po' con il velo. Melanie era radiosa, i suoi capelli scintillavano di salute, non erano opachi e spenti come le ultime volte che l'avevo vista. Aveva ciò che desiderava, tutto l'aiuto che potevamo darle in questa fase. Giò aveva solo cinque anni, e la sua vita era così piena d'amore che non si sarebbe accorto che gli equilibri stavano diametralmente cambiando.

I rapporti umani erano complicati.

Le relazioni erano molto più complesse di quanto potessero sembrare.

Non esisteva un noi, un io o un tu. Non esisteva una lei, un lui, il terzo.

Esistevamo insieme, esistevamo separati.

Non c'era da spiegare niente, perché nessuno era in grado di districare tutti quei fili di relazioni complesse che ci venivano tesi addosso.

E la mia famiglia, tutta, ne era un esempio lampante.

Guardai Giò sdraiato sul tappeto di casa dei suoi adorati nonni, mentre colorava il disegno di un cane che aveva fatto. Disegnava molto bene, disegnava tanto. Aveva alzato gli occhi di scatto verso di me, sentendosi osservato. Allora mi ero alzata dal tavolo, per inginocchiarmi vicino a lui:

"Sei bravissimo, Giò." Gli avevo accarezzato la schiena piccola e magra, di bambino ossuto, un altro essere rispetto quando era solo un lattante rotondo e grassottello; ora lo guardavo ammirata, vestito in canotta e bermuda con tanti dinosauri disegnati sopra, come se fosse una creatura preziosa da venerare come una divinità.

"Guarda, zia. Questa sei tu."

"Sono un cane?" avevo alzato il foglio per avvicinarlo ai miei occhi. Dietro di me, la mia famiglia stava continuando a parlare, pacata.

"No!" si mise a ridere, di una risata sguaiata, mentre gli facevo il solletico sotto le ascelle. La sua pelle era liscia e profumata: "zia, questo qui è il mio cane. Tu sei questa." Tirò fuori un altro foglio, sfilandolo malamente da sotto il ginocchio, ed ecco qui Emilia: una figura azzurra, con i palmi rotondi e rosa, e le dita lunghissime e colorate di nero, il mantello azzurro che le copriva la faccia fino al naso e due grandi occhi verdissimi che spiccavano sopra il piccolo corpo sproporzionato. C'era scritto Zia, con lettere incerte e di dimensioni diverse l'una dall'altra, accanto a quella figura.

"Tu non hai un cane, Giò." Gli dissi, scuotendo la testa per scacciare via le lacrime che stavano facendo capolino dietro il velo.

"Mamma ha detto che lo prendiamo. Quando arriva il mio fratellino."

Caro Giò, noi due avremmo avuto molte cose da dirci, una volta che saresti cresciuto e diventato abbastanza grande per capire, anche se già avevi capito tutto. Eravamo molto simili.

Gli accarezzai la testa piena di capelli castano scuro che gli stavano appiccicati alle guance rosee e scavate, baciandolo tanto sulla fronte, sentendo che gli volevo così bene da soffrire insieme a lui, e da gioire insieme a lui per tutta la vita che aveva davanti a sé.

Emilia Koll - Il velo sul visoWhere stories live. Discover now