Capitolo 29. Je te laisserai des mots - Patrick Watson

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Not yet 25, they'll be kicking down the doors

Not yet 25, too loud to be ignored

Mentre spolveravo il pianoforte, la canzone degli Amazons, 25, era passata di nuovo alla radio. Ironicamente anche quest'anno, pensai, cominciando a canticchiarla.

In quelle lunghe giornate da sola, per evitare di pensare troppo, entravo nella Stanza della Musica, ora ribattezzata solo la Stanza, e cominciavo a suonare note scoordinate, al pianoforte, ero confusa, non ero ancora riuscita a ricompormi del tutto.

Ma il suono dei tasti sul pianoforte mi regalava ancora delle sensazioni di calma e fascino, come se avessero una cura speciale per le mie ferite. Abbandonavo degli spartiti scritti confusamente a terra, quando quella sorta di illuminazione arrivava a tanto.

Quando riuscivo a comporre.

E, il giorno successivo, raccoglievo quei fogli sparsi a terra, e li gettavo nel sacco dell'immondizia facendoli a pezzi, rendendoli irriconoscibili, senza la minima forma di ripensamento. Senza mai mostrarli a nessuno.

Passai tutto l'autunno a coccolare i miei gatti, a prendermi cura della mia casa, a fare grossi sacchi di oggetti inutilizzati e inutili, a fare pulizia di ciò che adesso non mi serviva più.

Il mio corpo si stancava facilmente e spesso passavo intere giornate sdraiata a letto. Niente bici, niente piscina, era tutto sparito.

Emma e Alex venivano abbastanza spesso a farmi visita, ma ero diventata una specie di eremita, chiusa nella mia casa senza avere mai il coraggio di mettere il naso fuori. L'unico viaggio nel mondo esterno, quello sull'autobus da casa Koll a casa mia l'avevo passato avvolta nella sciarpa azzurra appoggiata al finestrino del lato sinistro del mezzo, ignorando gli eventuali sguardi degli altri passeggeri. Odiavo gli sguardi. Odiavo anche quelli dei miei amici, con cui riuscivo ad aprirmi molto di più a voce, per telefono. Mettendo una distanza fisica e materiale tra me e loro.

Quel giorno fu il turno delle fotografie. Mi ritrovai in piedi davanti a tutte quelle cornici, e feci un lungo sospiro, avvicinandomi con il piede lo scatolone che avevo preparato e tenendo le mani sui fianchi. Detti una pedata alla scatola per rimetterla dritta, senza staccare gli occhi da quelli di lui, per imprimerli nella mia mente, prima di condannarli all'oblio. Cominciai a togliere le foto una a una e a riporle nella scatola, così come veniva, senza preoccuparmi troppo di fare la maga del tetris della situazione.

In ogni foto che appoggiavo sopra la precedente, dentro una vecchia scatola di cartone di Amazon Prime che avrei riposto più tardi nello sgabuzzino esterno della chiostra del condominio, mi osservavo ritratta in pose più o meno stupide, più o meno pronta, in ogni caso sempre molto fotogenica.

Accennai un sorriso, sentendo tirare la parte sinistra del volto, osservando invece quel volto liscio e perfetto, da trentaduenne senza rughe né imperfezioni che ero stata. Amavo il mio sorriso vero, amavo quel viso, gli occhi felici, verdi e scintillanti, e mi mancava così tanto da sentire una fitta ben più forte di quella che provavo quando urtavo l'orecchio sinistro, o comunque ciò che ne restava. Non potei fare a meno di voltarmi verso lo specchio del mobile accanto alla parete delle foto. E feci una smorfia di sofferenza, vedendo quel mostro sullo specchio. Una specie di maschera di cera sciolta che si era abbattuta su una parte del mio viso, i capelli corti e crespi che si arricciavano da tutte le parti senza conoscere il senso della gravità. Gli occhi spiritati e cerchiati da occhiaie, e il colore verde che si disperdeva nel grigiore della mia pelle. L'occhio sinistro che aveva l'angolo esterno leggermente piegato all'ingiù. Strinsi i pugni, girandomi davanti allo specchio e piegandomi su di esso, volendo distruggerlo, ridurlo a pezzetti microscopici, come ora mi stavo sentendo.

Gridai forte contro lo specchio, formando una grossa 'A' con la bocca, deformando ulteriormente i lineamenti del mio viso, tirando al massimo le mascelle, riducendo le labbra a due semicerchi fini e tesi. Un grido di rabbia.

Urlai ancora più forte, non so per quanto. Afferrai il primo oggetto che avevo fra le mani, una madonnina dipinta dentro una conchiglia di coccio, forse appartenuta a mia nonna. Stavo per scagliarla contro lo specchio ma qualcosa mi fermò nell'intento. Osservai nel riflesso, buttata sul letto, alle mie spalle, la sciarpa azzurra. La sciarpa di Dino, la mia sciarpa.

Mi voltai per afferrarla, e con uno scatto la appoggiai sulla cornice in legno dello specchio, facendola aderire a tutta la superficie, coprendo il riflesso.

"Così va meglio." Mi dissi, sentendo il balzo di Kobe alle mie spalle. Era montato sul letto, ora che era libero dalla sciarpa di Dino, per formare la sua pallina e dormire tranquillo. Lui ne percepiva ancora la presenza, attraverso quel pezzo di stoffa. E, non avendolo mai sopportato quando viveva qui, aspettava di avere campo libero per insinuarsi negli spazi che lui riteneva opportuni.

Ma non potevo sfuggire per sempre a quel riflesso. Dove mi voltavo vedevo un vetro, i miei occhi nel metallo delle pentole in cucina, nei vetri delle finestre, attraverso i colli delle bottiglie.

Feci dei passi nervosi, tornando in camera, sfogliando a poco a poco la sciarpa dal grande specchio sopra il mobile, me la rigirai intorno alle dita, avvolgendola come per fare un nodo.

Così pensai a lei, ad Ada McGrath, e guardai fissa la mia immagine allo specchio, con aria di sfida.

"Addio." Sibilai, e mi portai la sciarpa sul viso. Il tessuto mi permetteva di vedere fuori, ma non di vedere dentro.

Era il mio velo sul viso.

Emilia Koll - Il velo sul visoWhere stories live. Discover now