Capitolo 41. Flapper Girl - The Lumineers

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Uscii dalla Stanza, liberandomi da questi pensieri, mentre ricontrollavo le stanze vuote intorno a me, facendo roteare il mazzo di chiavi Don't do stupid shit tra le mie dita. Dovevo scendere in quello stanzino, fuori nella chiostra. Mi bloccai davanti alla porta di casa, con il telefono in mano, digitando automaticamente il numero di Emma:

"Che succede?" mi apostrofò subito, con uno slancio che mi fece venire le vertigini.

"Emma. Devi venire qui."

"Problemi col trasloco, principessa? Ops...scusa, volevo dire, Shahrazad..." mormorò, sensuale, allungando le tre vocali dell'ultimo nome pronunciato.

"Emma, vuoi smetterla per cortesia? Ho solo bisogno di una mano con gli scatoloni da portare via a mano, prima che venga la ditta a ritirare il pianoforte." Guardai con sgomento la Stanza, preoccupandomi dell'ennesimo imballaggio che avrebbe dovuto subire il mio piano. Il terzo. E maledissi il giorno in cui avevo raccontato ad Emma della mia avventura sconsiderata.

"Ok, bellezza indiana. Dammi solo una mezzoretta e sono da te."

"Fa' con calma, e porta del caffè, che qua è tutto dentro le scatole." Sbuffai, portandomi una mano su un fianco, mentre osservavo la mia cucina vuota, con gli sportelli tutti spalancati per far loro prendere aria.

Tre quarti d'ora dopo, con un caffè macchiato dentro un bicchiere di plastica arroventato, mi trovavo nella chiostra del mio condominio insieme ad Emma, ad osservare il portoncino aperto dello sgabuzzino adibito a raccogliere le mie cianfrusaglie.

"Ok." mi fece Emma a un certo punto, guardandomi di sbieco, mentre mi rollavo l'ennesima sigaretta, aspirando nervosamente: "facciamo un po' di pulizia, che dici?" si abbassò in tutta la sua lunghezza statuaria, spingendo il sedere in fuori con le sue lunghe gambe ed afferrare i primi scatoloni all'interno dello stanzino.

"Non voglio buttare via proprio tutto, eh." Mi lamentai, alternandomi con lei per svuotare quella stanza.

"No, sicuro. Non sei nemmeno lontanamente paragonabile a un'accumulatrice seriale. Guarda qua." mi sventolò i volantini di una festa del liceo sfilati da una pila di quaderni stropicciati: "e chi vuole dimenticarsi della recita di fine anno di Melanie in quarta liceo?" cantilenò, ironica. Poi si voltò di scatto facendo ondeggiare il gommino minuscolo nero che avvolgeva i suoi capelli facendo sbattere le ciocche fini sul collo e continuò la ricerca.

"No, aspetta. Quello è aperto..." mormorai, constatando che la scatola di Amazon Prime che avevo scollato molti anni fa stava trasbordando tutto il suo contenuto a terra.

"Oh, porca merda!" esclamò, Emma, buttandosi con tutto il suo lungo corpo sullo scatolone, prima che io mi avvicinassi: "va tutto bene, Emi, vade retro. E prendimi la bottiglietta d'acqua che qui tra queste porte di alluminio distanti un metro e mezzo l'una dall'altra stiamo cuocendo come due uova sode."

Mi voltai di scatto, sfilandomi il cardigan leggero che avevo ancora indosso e restando solo con la mia canotta bianca e pantaloncini di jeans sopra le cosce. Bevvi una lunga sorsata di acqua fresca, prima di lanciare la bottiglietta ad Emma, che nel frattempo aveva ributtato in malo modo le cornici dentro lo scatolone.

"Avanti, fallo fare a me." Dissi, risoluta. Presi il sacco nero dell'immondizia, dove stavo buttando tutte le chincaglierie inutili, per trascinarlo vicino allo scatolone delle foto.

Volevo farlo davvero?

Tirai fuori la prima. La guardai attentamente, stringendola con una mano, e strusciando il pollice sul mio profilo. Stavo baciando Dino, mentre lui scattava un selfie, senza guardare l'obbiettivo, ma lasciandosi baciare da me, con un sorriso che gli piegava la guancia formando una piccola fossetta. Stava sorridendo a me. Stava sorridendo per me.

La collanina con la foglia argentata brillava sul suo collo, i suoi riccioli castani gli solleticavano la pelle sotto le orecchie. Eravamo due profili perfetti.

"Non ce la faccio." Mormorai, abbassandomi sulle ginocchia, e tenendo la foto tra le mie gambe, senza osare più guardarla. Socchiusi gli occhi. Mi sentii scuotere la spalla dalla sua mano:

"Emi, chiudiamo questa scatola e teniamola in garage. Mettiamola nel box di tuo padre e non pensiamoci più, ok? È passato un po' di tempo, è vero. Ma chissenefotte, te l'hanno mai detto? E sticazzi, te l'hanno mai detto, a te? A me sì, quindi ora prendo un nastro adesivo, la sigilliamo, e ce la leviamo dai coglioni senza buttarla in discarica, ok?"

Osservai l'interno dello scatolone allungando il collo e buttai l'occhio sui nostri sorrisi, le nostre facce buffe di fronte all'obbiettivo, gli scatti improvvisi che coglievano un momento qualsiasi, uno dei tanti, uno di quelli che pensi sia poco importante, e che quando lo riguardi pensi che invece era importantissimo.

"Ok, Emma." Le passai la cornice, tenendo gli occhi chiusi e lasciando che Emma facesse il lavoro sporco al posto mio.

Finimmo di ripulire tutto lo stanzino, e ci trascinammo tre grossi sacchi neri lungo tutto il marciapiede della strada trafficata vicino al portone, raggiungendo il cassonetto più vicino.

Poi c'era stata la piccola e consueta deviazione all'enoteca accanto al mio portone per cercare una birra fresca e artigianale, da gustarsi insieme alle 11,30 del mattino. Era l'ora dell'aperitivo, aveva detto la mia amica.

"Hai mai fatto caso che le case vuote hanno questa eco inquietante e triste allo stesso tempo?" mi fece Emma, seduta sul pavimento con me, nella Stanza, mentre le nostre birre tintinnavano per l'ennesima volta. Radio Freccia trasmetteva Hometown dei Cleopatrick dalla cassa, donando colori rossi accesi all'ambiente deserto intorno a noi con i suoi toni punk.

"Sì." Risposi soltanto, guardandomi intorno, pensierosa. Muri ingialliti dalla nicotina, più bianchi dove prima vi erano addossati i mobili, come la vecchia vetrina con dentro i miei libri e gli spartiti di mio padre. Poggiai la birra a terra, accanto ad Emma, e mi alzai, sedendomi al panchetto del mio pianoforte, l'unico complice rimasto a farci compagnia.

Bello, nero, imponente.

Silenzioso osservatore delle mie piccole grandi avventure. Passai la mano sul coperchio, esitante. Avrei potuto farlo, avrei potuto suonare un'ultima volta prima che arrivassero gli operai a portarlo via. Avrei potuto legarmi la caviglia con una corda bella spessa, e legare l'altra estremità alla gamba del piano. Restare con lui ancora un po', fino a quando non sarebbe giunto il momento di trovargli la nuova sistemazione. Ma il nostro non era un addio, era solo uno dei tanti arrivederci che ci eravamo dati per tutta la vita.

Mentre mi figuravo avvolta in una specie di carta da pacchi, incollata al piano e rinchiusa in un box noleggiato nei sotterranei di una palazzina, sentii lo sguardo silenzioso di Emma alle mie spalle. Aprii il coperchio, sfilando lentamente la sciarpa azzurra che Dino aveva dimenticato e che io avevo usato per coprire i tasti. La sciarpa che mi aveva aiutato a suonare di nuovo dopo anni, quella che mi aveva coperto il volto per isolarmi dal mondo. Mi dondolai in quel ricordo felice, e la tenni tra le mie mani come si fa con un cucciolo, osservandone i lembi consumati, il colore azzurro, più sbiadito del velo di seta che indossavo ora sul viso. Poi me la misi addosso, come una mantellina, strusciando il mento sul tessuto ancora morbido e delicato, che aveva ancora quel non so che di cose buone.

Mi voltai verso Emma, strusciando le mie gambe sul panchetto, piegando un ginocchio per portarmi un piede sotto il sedere.

"Anche lei verrà con me."

Sarebbe sempre rimasta con me.

Emilia Koll - Il velo sul visoWhere stories live. Discover now